Martedì 27 giugno 2017
Caso Englaro: definitiva condanna della Regione al risarcimento dei danni patrimoniali e non, per il rifiuto di eseguire il giudicato civile per motivi di "coscienza"
A cura della Redazione
La Terza Sezione in sede giurisdizionale del Consiglio di Stato (Pres. Lipari - Est. Santoleri), con la sentenza n. 3058 pubblicata il 21 giugno 2017, ha pronunciato sentenza di condanna in via definitiva della Regione Lombardia al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per il rifiuto opposto dall'Ente di dare esecuzione al giudicato civile che ha ordinato l'interruzione del trattamento di mantenimento in vita di Eluana Englaro anche, tra gli altri, per motivi di "coscienza".
Di grande rilievo, i principi di diritto affermati o ribaditi circa la natura "speciale" della responsabilità extracontrattuale da atto illegittimo della P.A. ed in tema di diritto assoluto della persona alla interruzione dei trattamenti terapeutici conseguenti al "consenso informato", già precisati dalla Corte Suprema di Cassazione con la sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748.
Di seguito il testo integrale della pronuncia del Consiglio di Stato dello scorso 21 giugno.
"1. – Il presente giudizio di appello costituisce l’ultimo segmento di un’articolata vicenda sostanziale e processuale, culminata nelle due pronunce del TAR per la Lombardia, n. 214 del 26 gennaio 2009 e di questa Terza Sezione n. 4460 del 2014.
Sentenza del Consiglio di Stato 21 giugno 2017 n. 11729
Di grande rilievo, i principi di diritto affermati o ribaditi circa la natura "speciale" della responsabilità extracontrattuale da atto illegittimo della P.A. ed in tema di diritto assoluto della persona alla interruzione dei trattamenti terapeutici conseguenti al "consenso informato", già precisati dalla Corte Suprema di Cassazione con la sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748.
Di seguito il testo integrale della pronuncia del Consiglio di Stato dello scorso 21 giugno.
"1. – Il presente giudizio di appello costituisce l’ultimo segmento di un’articolata vicenda sostanziale e processuale, culminata nelle due pronunce del TAR per la Lombardia, n. 214 del 26 gennaio 2009 e di questa Terza Sezione n. 4460 del 2014.
L’attuale processo non rimette in
discussione gli esiti delle precedenti decisioni, ormai passate in giudicato,
ma ha un oggetto ben definito e circoscritto, per quanto complesso, concernente
l’eventuale responsabilità risarcitoria della Regione Lombardia, in conseguenza
dei danni asseritamente derivanti dal provvedimento illegittimo annullato dalla
citata sentenza n. 214/2009, confermata in appello.
È pertanto utile riassumere i punti
salienti della vicenda all’origine della controversia, focalizzando
l’attenzione sugli elementi direttamente rilevanti ai fini della presente
decisione.
L’attuale appellato, nella sua qualità di
tutore della figlia -OMISSIS-, ha impugnato avanti al T.A.R. Lombardia la nota
della Regione Lombardia prot. n. M1.2008.0032878 del 3.9.2008, con la quale il
Direttore Generale della Direzione Generale Sanità aveva respinto la richiesta,
formulata dal predetto, con atto di significazione e diffida del 19.8.2008, che
la Regione mettesse a disposizione una struttura per il distacco del sondino
naso-gastrico che alimentava e idratava artificialmente la predetta -OMISSIS-,
in stato di coma vegetativo permanente e in cura presso una struttura sanitaria
pubblica regionale, in seguito all’autorizzazione rilasciata dalla Corte di
Appello di Milano, con decreto del 9.7.2008, nel giudizio di rinvio disposto
dalla Corte di Cassazione, sez. I, 16.10.2007, n. 21748, e in sede di reclamo
contro il provvedimento del giudice tutelare del Tribunale di Lecco.
2. - Nell’impugnato provvedimento la
Regione Lombardia, pur manifestando sentimenti di solidarietà e vicinanza al
tutore per quanto stava accadendo alla sua famiglia, aveva respinto la
richiesta del tutore, esponendo, fra l’altro, la seguente motivazione: “in
quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico –
assistenziale dei pazienti” e in tali strutture, hospice compresi, deve essere
garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione, idratazione e
accudimento delle persone e, in particolare, negli hospice possono essere
accolti solo malati in fase terminale”.
3. - La nota aveva aggiunto che il
personale sanitario il quale avesse proceduto, in una delle strutture del
Servizio Sanitario, alla sospensione dell’idratazione e alimentazione
artificiale sarebbe venuto meno ai propri obblighi professionali e di servizio,
anche in considerazione del fatto che – a dire dell’amministrazione regionale -
il provvedimento giurisdizionale, di cui si chiedeva l’esecuzione, non
conteneva un obbligo formale di adempiere a carico di soggetti o enti
individuati.
4. - Avverso tale determinazione aveva
proposto ricorso avanti al T.A.R. Lombardia il predetto tutore, lamentando che
il provvedimento impugnato sostanziasse un autentico “atto di ribellione”
della Regione Lombardia al diritto, come sancito da un pronunciamento
giurisdizionale, quale quello della Corte di Appello di Milano, sin dal
9.7.2008 esecutivo e ormai divenuto anche inoppugnabile, per essere stata
respinta ogni impugnativa contro il medesimo, proposta tanto avanti alla Corte
costituzionale quanto dinanzi alla Corte di Cassazione.
5. - La Regione Lombardia, quale ente
istituzionalmente e costituzionalmente competente per i servizi sanitari,
nonché per il coordinamento e la programmazione degli stessi, aveva la
responsabilità di assicurare le cure e, dunque, anche l’eventuale interruzione
delle stesse, in conformità dei pronunciamenti giudiziari, e ciò per la
generalità degli assistiti che, come -OMISSIS-, erano in carico al Servizio
Sanitario Regionale.
6.- Aveva aggiunto il ricorrente che
sarebbe stato comunque abnorme e manifestamente lesivo della libertà
dell’esercizio della professione intellettuale, anche agli effetti dell’art.
33, comma 1, Cost., oltre che del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.,
che un organo amministrativo della Regione potesse stabilire quali fossero gli
obblighi professionali del medico in riferimento a cure e trattamenti da
praticarsi ad un singolo assistito, poiché ciascuno, adottando tale ordine
d’idee, avrebbe potuto vedersi elargiti o negati dal “proprio” medico
trattamenti sanitari o cure ad arbitrio dell’Amministrazione.
7.- Il rifiuto assoluto, espresso dalla
Regione Lombardia e delle strutture sanitarie da essa programmate e coordinate
nell’ambito del servizio pubblico, a collaborare all’esecuzione di un
provvedimento giurisdizionale esecutivo, doveva ritenersi, quindi, gravemente
illegittimo, anche dal punto di vista dell’art. 388, comma secondo, c.p., o di
altre norme penali che sanzionano l’elusione o la violazione delle decisioni
giudiziarie.
8.- Il ricorrente aveva chiesto, pertanto,
al T.A.R. per la Lombardia di annullare l’atto impugnato, condannando
l’Amministrazione al risarcimento del danno.
9.- Con successiva e separata istanza
cautelare, depositata il 30.12.2008, il ricorrente aveva domandato idonea
tutela d’urgenza, volta ad assicurare l’esecuzione del citato decreto della
Corte d’Appello di Milano.
10.- Nella camera di consiglio del
22.1.2009, fissata per l’esame dell’istanza cautelare, il T.A.R. per la
Lombardia, ritenuto di poter decidere la controversia in forma semplificata, ai
sensi dell’art. 26 della l. 1034/1971, al tempo vigente, stante anche
la rinuncia alla domanda risarcitoria proposta dal ricorrente, aveva
trattenuto la causa in decisione.
11. - Il T.A.R. per la Lombardia, quindi,
con sentenza n. 214 del 26.1.2009, ha accolto il ricorso, disponendo
l’annullamento del provvedimento impugnato.
Nel merito, il T.A.R. ha stigmatizzato il
provvedimento impugnato, per aver illegittimamente vulnerato il diritto
costituzionale di rifiutare le cure, riconosciuto ad -OMISSIS- dalla sentenza
della Cass., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, quale diritto di libertà assoluto,
il cui dovere di rispetto si impone erga omnes, nei confronti di
chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura, non importa se
operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata.
12.- Secondo il primo giudice il soggetto
assistito che rifiuta le cure e, quindi, anche l’alimentazione e l’idratazione
artificiale, riconducibili alla nozione più ampia di trattamento terapeutico e
di assistenza sanitaria, ha diritto a che siano apprestate tutte le misure,
suggerite dagli standards scientifici riconosciuti a livello internazionale,
atte a garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della
persona, durante tutto il periodo successivo alla sospensione del trattamento
di sostegno vitale, rientrando ciò, a pieno titolo, nelle funzioni
amministrative di assistenza sanitaria.
13. - L’Amministrazione sanitaria
regionale, conformandosi alla sentenza, avrebbe dovuto, in ossequio ai principi
di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, indicare la struttura
sanitaria dotata dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, tali
da renderla “confacente” agli interventi e alle prestazioni strumentali
all’esercizio della libertà costituzionale di rifiutare le cure, al fine di
evitare all’ammalata o al tutore o curatore di lei, nel suo interesse, di
indagare quale struttura sanitaria fosse meglio equipaggiata al riguardo.
14.- -OMISSIS-, dopo la pubblicazione
della sentenza del TAR, è deceduta il 9.2.2009 a Udine, presso la struttura
sanitaria privata individuata autonomamente dal rappresentante legale, quale
soggetto professionalmente idoneo a consentire l’adozione delle misure
assistenziali individuate dalle predette pronunce del giudice civile.
15. - Tale sentenza del TAR è stata
impugnata dalla Regione Lombardia dinanzi a questo Consiglio di Stato che, con
la decisione n. 4460 del 2014, ha respinto l’appello, confermando, in toto, con
un’ampia motivazione, la pronuncia di primo grado.
La sentenza n. 4460 del 2014 ha precisato
(pagg. 8-9) che persisteva intatto l’interesse della Regione Lombardia
all’impugnativa, nonostante fosse nel frattempo deceduta la persona assistita,
non soltanto per la sussistenza di un interesse strumentale o morale (anche per
orientare l’attività amministrativa dell’Ente in ipotetici casi analoghi che
avrebbero potuto verificarsi in futuro), ma anche per la “perdurante utilità
ai fini della domanda risarcitoria, rinunciata nel presente giudizio da parte
del tutore di -OMISSIS-, ma pur sempre riproponibile una volta che sia passata
in giudicato la sentenza che abbia accertato l’illegittimità dell’atto,
annullandolo”.
Come già incidentalmente rilevato, infatti,
nel ricorso di primo grado era stata avanzata anche la domanda risarcitoria,
alla quale – però – la parte ricorrente aveva rinunciato, nella camera di
consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, per poter ottenere la
decisione in forma semplificata. La sentenza della Sezione, non impugnata dalla
parti interessate, è passata in giudicato.
16. - Con successivo ricorso al TAR per la
Lombardia, notificato in data 12 gennaio 2015 e depositato il 22 gennaio
successivo, il ricorrente, nella qualità di erede e di congiunto della Signora
-OMISSIS-, nonché, in proprio, quale tutore della stessa, ha chiesto la
condanna della Regione Lombardia al risarcimento dei danni, patrimoniali e non
patrimoniali, derivanti dagli atti annullati dalla citata sentenza del T.A.R.
Lombardia, Milano, Sez. III, 26 gennaio 2009, n. 214, come confermata dal
Consiglio di Stato, Sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, reiterando e
precisando la domanda già proposta in quel giudizio e poi rinunciata.
A sostegno del ricorso ha dedotto la
violazione dei principi costituzionali e del diritto sovranazionale in materia
di garanzia dell’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, attesa la
mancata volontaria attuazione da parte degli Uffici regionali di prescrizioni
discendenti da pronunce definitive sia della Corte di Cassazione che della
Corte d’Appello di Milano; nel ricorso sono stati analiticamente quantificati
il danno patrimoniale e quello non patrimoniale asseritamente patiti.
17. - Si è costituita nel giudizio di
primo grado la Regione Lombardia, che ha eccepito, preliminarmente,
l’inammissibilità dell’azione risarcitoria già proposta e poi rinunciata; ha
eccepito altresì – sempre in via preliminare - l’inammissibilità dell’azione
risarcitoria per carenza di legittimazione attiva proposta dal ricorrente in
qualità di tutore della figlia interdetta; ha quindi chiesto il rigetto
dell’impugnativa per infondatezza.
18. - Con la sentenza di primo grado il
TAR ha così statuito in punto di rito:
- ha respinto l’eccezione di inammissibilità
del ricorso, a causa della preventiva rinunzia alla domanda risarcitoria;
- ha accolto l’eccezione di difetto di
legittimazione attiva del ricorrente nella qualità di tutore della figlia.
Nel merito, ha riconosciuto la sussistenza
di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, qualificando la condotta della
Regione come dolosa, ed ha accolto il ricorso nei seguenti termini:
- quanto al danno patrimoniale ha
riconosciuto la somma complessiva di € 12.965,78, così ripartita: € 647,10
legati al costo del trasporto della persona assistita; € 470,00 quale retta per
la degenza; € 11.848,68 per costi legati al piantonamento fisso, oltre agli
interessi legali dal momento dell’esborso e fino alla data di pubblicazione
della sentenza;
- quanto al danno non patrimoniale, ha
riconosciuto a titolo ereditario la somma di € 60.000,00 complessivamente
spettante alla totalità degli eredi, ridotta ad un terzo – e quindi a €
20.000,00 – a favore del Sig. -OMISSIS-, tenuto della mancata prova circa la
sua condizione di unico erede (nel dispositivo tale somma viene invece
quantificata in € 30.000,00);
- ha respinto la richiesta del danno
morale soggettivo iure proprio, in mancanza della prova della
sussistenza di una fattispecie di reato;
- ha accolto la richiesta di risarcire il
danno da lesione parentale, ed ha quantificato la somma in € 100.000,00 oltre
interessi e rivalutazione monetaria dalla data di proposizione del ricorso
deciso con la propria sentenza n. 214 del 2009 fino al saldo.
19. - Con il ricorso in appello la Regione
appellante ha censurato la sentenza, in relazione a molteplici profili di rito
e di merito, chiedendone l’integrale riforma.
20. - L’appellato si è costituito in
giudizio, spiegando anche appello incidentale avverso i capi di sentenza che lo
hanno visto soccombente in primo grado.
In prossimità dell’udienza di discussione
le parti hanno depositato scritti difensivi.
21. - All’udienza pubblica del 6 aprile
2017 l’appello è stato trattenuto in decisione.
22. - Deve essere esaminata preliminarmente
la prima doglianza dell’atto di appello, con la quale la Regione Lombardia ha
dedotto l’erroneità, l’illogicità e la contraddittorietà, oltre che
l’insufficienza della motivazione, della sentenza, nella parte in cui ha
respinto l’eccezione di inammissibilità o improcedibilità del ricorso formulata
in primo grado; ha dedotto, altresì, la violazione delle norme e della
giurisprudenza in materia di rinuncia all’azione e del principio di certezza
del diritto, oltre che la violazione dell’art. 30 c.p.a.
Secondo la Regione, il capo di sentenza
con il quale il primo giudice ha respinto l’eccezione sarebbe erroneo in
quanto:
- la rinuncia alla domanda risarcitoria
effettuata nel precedente giudizio impugnatorio costituirebbe rinunzia
all’azione in senso sostanziale, incidendo sui diritti sottostanti, e dunque
comporterebbe l’inammissibilità della riproposizione della domanda risarcitoria
in un successivo giudizio;
- l’azione di condanna al risarcimento del
danno, infatti, può essere proposta contestualmente all’azione di annullamento,
o in via autonoma: nel caso di specie, il ricorrente avrebbe deciso di proporre
le due domande congiuntamente ed avrebbe insistito, poi, per la sola domanda di
annullamento, rinunciando, invece, a quella risarcitoria;
- l’art. 30 c.p.a. non consente la
riproposizione della domanda ove già presentata, la norma infatti prevede le
due modalità di proposizione in via alternativa e non cumulativa: essendo stata
proposta 6 anni prima e poi rinunciata, la domanda risarcitoria non avrebbe potuto
essere riproposta;
- erroneamente il primo giudice avrebbe
richiamato la statuizione del giudice di appello non essendo coperta da
giudicato, in quanto resa, incidentalmente, al solo fine della declaratoria
della permanenza dell’interesse a ricorrere.
23. - La doglianza è infondata.
23.1 – Va premesso che i ripetuti richiami
dell’appellante alla disciplina del codice del processo amministrativo non
appaiono pertinenti, dal momento che l’originaria domanda risarcitoria e la sua
rinuncia sono soggette, ratione temporis, alla disciplina
previgente.
Sempre in linea preliminare, occorre
considerare che non emerge dagli atti di causa del precedente giudizio alcuna
volontà della parte interessata di rinunciare alla pretesa risarcitoria
sostanziale: al contrario, l’atto di rinuncia, formulato direttamente nella
camera di consiglio celebrata dinanzi al TAR, risulta puntualmente riferito
alla sola azione proposta nell’ambito di quel giudizio.
Si legge, infatti, nel verbale della
camera di consiglio relativa al ricorso n. 2443/2008, che “l’avv. Angiolini
rinuncia, allo stato, all’istanza di risarcimento”.
Si tratta, all’evidenza, di una
dichiarazione a contenuto meramente processuale (“istanza”), imputata,
direttamente al difensore “l’avv.” e non alla parte sostanziale, circoscritta
al giudizio in corso (“allo stato”).
Occorre rilevare, poi, – in via generale –
che la rinuncia alla domanda non va confusa con la rinuncia agli atti del
giudizio: nel caso di rinuncia agli atti del giudizio si può parlare di
estinzione del processo, cui consegue una pronuncia meramente processuale,
potendo essere la domanda riproposta nel caso in cui siano ancora aperti i
termini per far valere in giudizio la pretesa sostanziale; la rinuncia
all'azione, invece, comporta una pronuncia con cui si prende atto di una
volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta in
giudizio, con la conseguente inammissibilità di una riproposizione della
domanda (cfr. Cons. Stato, VI, n. 1644/2003).
In quest’ultimo caso non vi può essere
estinzione del processo, in quanto la decisione implica una pronuncia di
merito, cui consegue l’estinzione del diritto di azione, in quanto il giudice
prende atto della volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale
dedotta nel processo.
23.2 - Nel caso di specie, ritiene il
Collegio che il TAR abbia qualificato correttamente la rinuncia alla domanda
risarcitoria, in origine proposta cumulativamente insieme alla azione di
annullamento, come mera rinunzia agli atti del giudizio, e non come rinunzia
all’azione. Questa circostanza rende superfluo l’approfondimento della
questione concernente la valenza di giudicato – contestata dall’appellante -
attribuita all’analoga statuizione da parte del giudice di secondo grado.
A tale riguardo, però, è sufficiente
rilevare che la pronuncia della Sezione aveva accuratamente valorizzato la
concreta possibilità di un successivo giudizio risarcitorio quale motivo
centrale del permanente interesse della Regione a coltivare l’appello avverso
la sentenza di annullamento.
E’ indubbio, comunque, che la decisione di
rinunciare alla domanda risarcitoria in quella sede era motivata dalla sola
necessità di addivenire ad una rapida definizione della controversia nel
merito, al quale ostava la pronuncia sulla domanda risarcitoria, che, per la
sua natura complessa, non si prestava ad una rapida definizione con la
decisione in forma semplificata, ai sensi dell’art. 26 della L. 1034/71,
all’epoca vigente. Appare quindi del tutto evidente, che la parte intendesse
rinunciare non già alla pretesa sostanziale – e quindi all’azione – ma soltanto
a quella parte di ricorso che si palesava oggettivamente incompatibile con la
pronta definizione della controversia riguardante la legittimità del diniego
impugnato. A tale rinuncia era poi, conseguita, correttamente, la pronuncia
processuale di estinzione dell’azione, tale da non impedire la rituale
riproposizione della stessa domanda entro il termine di prescrizione
dell’azione.
23.3 - Né sussistono preclusioni nascenti
dall’art. 30 c.p.a. e dal principio di alternatività, richiamato
dalla difesa della Regione Lombardia, tenuto conto che il giudizio è iniziato
nel 2009, e dunque è senz’altro anteriore all’entrata in vigore del codice del
processo amministrativo, con la conseguenza che ad esso continua ad applicarsi
il regime precedente, il quale consentiva certamente la riproposizione della
domanda risarcitoria, entro il termine di prescrizione (cfr. Corte
Costituzionale, 31/03/2015, n. 57; Cons. Stato A.P. 6/7/2015 n. 6).
La doglianza deve essere pertanto
respinta.
24. - Con il secondo – articolato - motivo
di appello principale la Regione Lombardia censura, nel merito, il capo di
sentenza che ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per la
responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo.
Ha quindi dedotto i vizi di insufficienza
della motivazione, la violazione dei principi di diritto e giurisprudenziali in
materia di elementi costitutivi della responsabilità da attività illegittima
della P.A., la violazione dell’art. 2043 c.c., l’erronea valutazione ed il
travisamento dei fatti, la violazione dell’art. 112 c.p.c.
Il punto centrale del complesso motivo di
impugnazione riguarda il profilo dell’indispensabile coefficiente soggettivo
(dolo o colpa), che deve contrassegnare la responsabilità della PA derivante
dall’adozione di atti illegittimi, insieme al requisito del nesso di causalità
tra i danni subiti e il provvedimento illegittimo.
Al riguardo, la Regione contesta, in punto
di fatto, l’accertamento compiuto dal TAR e svolge un’ampia critica alle
premesse ricostruttive generali da cui muove la sentenza appellata.
24.1 - La Regione critica – innanzitutto -
l’inquadramento della fattispecie operata dal TAR: il riferimento alla natura “speciale”
di responsabilità da attività illegittima della P.A., in quanto
procedimentalizzata, non inquadrabile né nell’ambito di quella contrattuale né
in quella extracontrattuale (pag. 8 della decisione impugnata), sarebbe errata
e comunque minoritaria all’interno della giurisprudenza.
Secondo la Regione, il modello richiamato
al TAR sarebbe, infatti, quello – inesatto - della responsabilità da “contatto
sociale qualificato” tra l’amministrazione e il privato, laddove, invece,
lo schema concettuale di responsabilità che viene in massima parte applicato
nella giurisprudenza amministrativa è quello della responsabilità
extracontrattuale.
Secondo l’appellante, l’inesatta
prospettiva seguita dal TAR avrebbe inciso sul corretto apprezzamento
dell’elemento soggettivo dell’illecito, impedendo di pervenire alla conclusione
secondo cui difetterebbe la prova della colpa e del dolo dell’amministrazione
regionale.
24.2 - Sebbene possa convenirsi con la
Regione Lombardia che, dopo l’entrata in vigore del codice del processo
amministrativo, la giurisprudenza maggioritaria si sia assestata nel senso di
inquadrare la responsabilità della P.A. nell’ambito della cornice
interpretativa delineata dalla previsione recata dall’art. 2043 c.c., è
opportuno comunque precisare che il richiamo operato dal TAR alla responsabilità
“speciale” della P.A. si correla essenzialmente alla decisione della Sesta
Sezione 4 maggio 2005 n. 1047, seguita poi dalle successive decisioni 27 giugno
2013 n. 3521 e 29 maggio 2014 n. 2792, anch’esse richiamate. Queste pronunce,
peraltro, non si pongono affatto nel solco della tesi della responsabilità da “contatto
sociale qualificato”, che finiva per ricondurre la responsabilità della
P.A. nell’ambito di quella contrattuale, con tutte le conseguenze che tale
inquadramento avrebbe comportato: riconoscibilità del risarcimento a
prescindere dalla spettanza del bene della vita, inversione dell’onere della
prova rispetto alla responsabilità aquiliana, non ristorabilità dei danni
imprevedibili, se non in caso di dolo, termine di prescrizione decennale.
24.3 – Piuttosto, la tesi della
natura speciale della responsabilità della Pubblica amministrazione
derivante da provvedimento illegittimo, cui mostra di aderire l’appellata
decisione del TAR, è stata delineata dalla giurisprudenza amministrativa in
considerazione della evidente difficoltà di utilizzare il modello generale e
ordinario dell’illecito aquiliano disegnato dall’art. 2043 del cod. civ.
In linea generale, infatti, nella
responsabilità extracontrattuale, difetta un preesistente rapporto giuridico
tra il danneggiato e l’autore dell’illecito. Al contrario, invece, la
responsabilità della PA derivante dalla lesione di un interesse legittimo si
inserisce necessariamente all’interno del rapporto già instaurato tra P.A. e
privato, il quale si svolge secondo le regole predefinite del procedimento
amministrativo. Il provvedimento illegittimo, lesivo della sfera patrimoniale
del destinatario, rappresenta, di regola, l’esito di un iter complesso, nel
corso del quale le parti hanno esposto le rispettive ragioni e il privato ha
delineato la consistenza dell’interesse pretensivo od oppositivo fatto valere
nell’ambito del procedimento.
Tuttavia, nemmeno l’inquadramento
nell’ambito della responsabilità contrattuale di cui agli artt. 1218 e ss. del
codice civile è apparso convincente, tenendo conto della circostanza che il
rapporto preesistente tra la PA e il privato non assume le connotazioni proprie
di un vincolo obbligatorio, caratterizzato dal rapporto tra il dovere di
prestazione e il diritto di credito.
In questo ambito, pertanto, si possono
collocare le non infrequenti affermazioni del carattere speciale della
responsabilità della PA, certamente rafforzate dalla esistenza di apposite
regole che definiscono gli elementi centrali dell’azione.
La concreta fattispecie in esame, del
resto, manifesta in modo palese le criticità dell’esatta qualificazione della
responsabilità risarcitoria della PA, anche nell’evoluzione normativa e
giurisprudenziale dell’istituto.
Infatti, nella presente controversia, il
provvedimento illegittimo produttivo di danno è costituito da un diniego
relativo allo svolgimento delle prestazioni mediche e terapeutiche, nell’ambito
di un rapporto sanitario di cura e di assistenza già in atto (da ben
diciassette anni) tra il soggetto richiedente e l’amministrazione sanitaria
pubblica nel suo complesso.
In questo specifico caso, quindi, anche
prescindendo dalla più generale questione della natura della responsabilità
della PA derivante da provvedimento illegittimo, si potrebbe certamente
approfondire la questione relativa alla esistenza di un rapporto obbligatorio,
fondato su un contatto sociale qualificato, o, se si preferisce, su
un tipico titolo giuridico espresso, costituito dalla “ammissione” del soggetto
interessato ad un duraturo rapporto di utenza con la struttura sanitaria.
La determinazione regionale di non
adottare le richieste misure necessarie per conformare il rapporto
assistenziale ai precedenti obblighi scaturiti dalle decisioni del giudice
civile, pertanto, si dovrebbe inserire in un rapporto giuridico già
sussistente, giustificando se non l’adesione alla discussa categoria del “contatto
sociale qualificato” (pure utilizzata recentemente dalla Corte di
Cassazione, in una fattispecie diversa, ma con significativi richiami anche
alle questioni riguardanti la responsabilità della PA da atto illegittimo),
quanto meno la correttezza della qualificazione della responsabilità della PA
come “speciale”.
Al tempo stesso, però, occorre evidenziare
che la posizione giuridica incisa dal provvedimento illegittimo assume, come si
specificherà infra, i contenuti di un diritto primario, costituzionalmente
tutelato “erga omnes”: tale configurazione, in effetti, potrebbe
rafforzare la tesi – oggettivamente maggioritaria – della natura aquiliana
della responsabilità da atto illegittimo.
Ai fini della risoluzione del presente
giudizio, tuttavia, non è necessario analizzare a fondo il tema e prendere
posizione su una questione dogmatica di principio.
Infatti, la sentenza appellata, pur
svolgendo un discorso introduttivo sulla natura speciale della
responsabilità, non ne ha tratto conseguenze significative sul piano della
dimostrazione del dolo e della colpa della PA. La pronuncia ha, in concreto,
accertato positivamente la sussistenza dell’elemento soggettivo della
responsabilità risarcitoria dell’amministrazione regionale.
A tale scopo, il TAR non solo ha applicato
i criteri indicati dalla giurisprudenza maggioritaria (aderente alla tesi della
natura aquiliana della responsabilità), basati sulla “presunzione relativa
di colpa” del soggetto pubblico autore del provvedimento illegittimo, ma ha
svolto un accurato e puntuale accertamento relativo alla sussistenza della
colpa concreta e del dolo dell’amministrazione.
24.4 - Nel caso di specie, infatti, il
primo giudice – dopo aver qualificato la responsabilità come “speciale”
- si è poi mosso nel solco dei parametri propri della responsabilità
extracontrattuale, individuando come elementi costitutivi della responsabilità
della P.A., l’elemento oggettivo, l’elemento soggettivo, il nesso di causalità
ed il danno ingiusto.
Anche nella valutazione dell’elemento
soggettivo e del nesso di causalità (sui quali si appuntano le doglianze della
Regione Lombardia), il TAR, in ultima analisi, ha fatto applicazione dei comuni
criteri utilizzati nell’ambito della responsabilità extracontrattuale: ciò
comporta la sostanziale neutralità – ai fini della decisione –
dell’inquadramento dogmatico della fattispecie seguito dal primo giudice.
25. - Prima di procedere alla disamina
delle doglianze proposte dalla Regione è opportuno richiamare i principi
espressi dal TAR.
In merito all’elemento oggettivo della
responsabilità, ossia il fatto lesivo e la sua ingiustizia, il primo giudice ha
ritenuto che:
“esso consiste in primo luogo
nell’impedimento frapposto all’esecuzione dell’autorizzazione rilasciata dalla
Corte di Appello di Milano, con decreto del 9 luglio 2008, emesso nel giudizio
di rinvio disposto dalla Corte di Cassazione, sez. I, 16.10.2007, n. 21748, e
in sede di reclamo contro provvedimento del giudice tutelare del Tribunale di
Lecco e divenuto ormai definitivo.
Anche la sentenza di questo Tribunale n.
214 del 26 gennaio 2009, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza del 2
settembre 2014 n. 4460, che ha annullato il diniego del Direttore Generale
della Direzione generale Sanità della Giunta Regionale Lombardia del 3 settembre
2008 di accettare il ricovero della malata, è rimasta inadempiuta prima del
decesso dell’interessata”.
Quanto all’elemento soggettivo, ha
ritenuto che:
“A fronte di un decreto della Corte
d’Appello di Milano – adottato il 9 luglio 2008 – di cui non può contestarsi
l’efficacia di cosa giudicata (punto 66.3 sentenza n. 4460 del 2014 del
Consiglio di Stato), contenente l’ordine di eseguire la prestazione richiesta
(punto 65.4 cit.), la Regione si è rifiutata deliberatamente e scientemente di
darvi seguito, ponendo in essere un comportamento di natura certamente dolosa.
Come evidenziato dalla pronuncia del
Consiglio di Stato (punto 23.1), la Regione ha inteso negare l’effettuazione
della richiesta prestazione sanitaria non con la semplice inerzia o con un mero
comportamento materiale, agendo “nel fatto”, o adducendo a motivo di tale
mancato adempimento l’impossibilità tecnica della prestazione richiesta o un
impedimento di ordine fattuale, bensì con l’emanazione di un espresso
provvedimento, a firma del Direttore Generale della Sanità Lombarda”.
Ha poi aggiunto il TAR che:
“Non è possibile che lo Stato ammetta che
alcuni suoi organi ed enti, qual è la Regione Lombardia, ignorino le sua leggi
e l’autorità dei tribunali, dopo che siano esauriti tutti i rimedi previsti
dall’ordinamento, in quanto questo comporta una rottura dell’ordinamento
costituzionale non altrimenti sanabile.
Né, a tal fine, si possono invocare motivi
di coscienza, in quanto, come evidenziato dalla pronuncia del Consiglio di
Stato (punto 55.6), <>”.
Infine, il TAR ha ritenuto sussistente
anche il nesso causale, rilevando che:
“l’inottemperanza al giudicato civile
prima, ed a quello amministrativo poi, ha determinato la protrazione di uno
stato vegetativo permanente in capo al soggetto interessato e contro la sua
volontà, con tutte le conseguenza che ne sono derivate”.
26. - Le doglianze dell’appellante
principale si rivolgono essenzialmente contro i capi di sentenza che hanno
statuito la sussistenza del dolo (negando anche la mera colpevolezza della
condotta) e hanno riconosciuto la sussistenza del nesso causale.
In particolare, con riferimento
all’elemento psicologico dell’illecito, la Regione ha richiamato il costante
orientamento della giurisprudenza, in tema di errore scusabile, idoneo ad
escludere il dolo e la colpa dell’amministrazione autrice del provvedimento
illegittimo (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 22/11/2016, n.
4896; Consiglio di Stato, sez. V, 2/09/2016, n. 3790) desumibile nel caso di
specie dalle seguenti circostanze:
- la notevole complessità della questione;
- l’assenza di una specifica
regolamentazione legislativa (sfociata nell’avvio del procedimento penale a
carico degli operatori che avevano eseguito il distacco del sondino);
- l’elevata discrezionalità tecnica
dell’attività della P.A.;
- l’esistenza di contrasti giudiziari,
giuridici e scientifici sulla questione;
- la mancata indicazione nella decisione
della Corte di Appello di Milano di oneri o di adempimenti a carico del SSR/SSN
derivanti dall’attuazione del decreto.
L’appellante ha quindi rilevato che tali
particolari circostanze non avrebbero potuto essere ignorate dal giudice di
primo grado come parametri per affermare la sussistenza o meno dell’elemento
soggettivo in capo all’Amministrazione.
27. - Con riferimento alla specifica
imputazione della condotta come dolosa, l’appellante ha dedotto la mancata
allegazione di prove idonee a qualificare il comportamento degli uffici
regionali come diretto a nuocere intenzionalmente, precisando che non sarebbe
configurabile neppure la colpevolezza della condotta, per le ragioni in
precedenza espresse. In tal senso non potrebbero rilevare le esternazioni rese,
in merito alla vicenda, dall’allora Presidente della Regione, trattandosi di un
soggetto titolare di un ruolo essenzialmente politico, che non si identifica
con le distinte funzioni attribuite all’apparato amministrativo che ha emesso
l’atto causativo di danno.
28. - La tesi della Regione, benché
articolata con approfonditi argomenti, non può essere condivisa.
Innanzitutto, è opportuno richiamare i
principi espressi dalla Corte di Cassazione in tema di autodeterminazione
terapeutica, già con la sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748, in epoca, quindi,
precedente l’adozione del provvedimento regionale, e certamente conosciuta
dall’amministrazione, considerando la rilevanza, anche mediatica, assunta dalla
decisione.
Tale pronuncia ha enunciato con chiarezza
le regole che governano il rapporto tra il soggetto assistito e la struttura
del servizio sanitario che eroga le cure e il trattamento terapeutico,
direttamente applicabili anche alla fattispecie in esame.
Di seguito si riportano i passaggi più
significativi della pronuncia, incentrata sul riconoscimento della
intangibilità della libertà dell’individuo, secondo principi ripresi e
sviluppati con chiarezza anche nella citata decisione di questa Sezione n. 4460
del 2014.
“Occorre premettere che il consenso
informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento
sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è sicuramente
illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso
libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà
dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi.
Il principio del consenso informato - il
quale esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico
e paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del
paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri
del medico - ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell'art.
2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua
identità e dignità nell'art. 13, che proclama l'inviolabilità della libertà
personale, nella quale "è postulata la sfera di esplicazione del potere
della persona di disporre del proprio corpo" (Corte cost., sentenza n. 471
del 1990); e nell'art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto
dell'individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la
possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una
riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e
ulteriormente specificata con l'esigenza che si prevedano ad opera del
legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio
di complicanze.
Nella legislazione ordinaria, il principio
del consenso informato alla base del rapporto tra medico e paziente è enunciato
in numerose leggi speciali, a partire dalla legge istitutiva del Servizio
sanitario nazionale (L. 23 dicembre 1978, n. 833), la quale, dopo avere
premesso, all'art. 1, che "La tutela della salute fisica e psichica deve
avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana",
sancisce, all'art. 33, il carattere di norma volontario degli accertamenti e
dei trattamenti sanitari.
Nel codice di deontologia medica del 2006
si ribadisce (art. 35) che "Il medico non deve intraprendere attività
diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e
informato del paziente".
La pronuncia della Cassazione ha chiarito
che “Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di
scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di
eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla,
in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico
che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore
etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine
eteronomo ed assorbente, concepisce l'intervento solidaristico e sociale in
funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite
del "rispetto della persona umana" in riferimento al singolo
individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua
persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose,
culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.
Ed è altresì coerente con la nuova
dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di
malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi
coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli
aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua
esperienza.
Deve escludersi che il diritto alla
autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso
consegua il sacrificio del bene della vita.
Benché sia stato talora prospettato un
obbligo per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un
divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti
vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di
essa, il Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto
di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte
del diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell'"alleanza
terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca,
insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per
una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche
quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle
situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di
verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il
rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un
dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.
Lo si ricava dallo stesso testo dell'art.
32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi
espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone
sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla
salute degli altri e che l'intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile
alla salute di chi vi è sottoposto (Corte cost., sentenze n. 258 del 1994 e n.
118 del 1996).
Soltanto in questi limiti è
costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla
salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo
risvolto negativo:
il diritto di perdere la salute, di
ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza
secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi
morire.
Il rifiuto delle terapie
medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato
per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare
la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un
atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo
corso naturale. E d'altra parte occorre ribadire che la responsabilità del
medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l'obbligo
giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo
viene meno: e l'obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa - insorgendo
il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria
alle cure - quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie
da parte di costui.
Tale orientamento, prevalente negli
indirizzi della dottrina, anche costituzionalistica, è già presente nella
giurisprudenza di questa Corte. La sentenza della 1^ Sezione penale 29 maggio
2002 - 11 luglio 2002 afferma che, "in presenza di una determinazione
autentica e genuina" dell'interessato nel senso del rifiuto della cura, il
medico "non può che fermarsi, ancorché l'omissione dell'intervento terapeutico
possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute
dell'infermo e, persino, la sua morte". Si tratta evidentemente - si
precisa nella citata pronuncia - di ipotesi estreme, "che nella pratica
raramente è dato di registrare, se non altro perché chi versa in pericolo di
vita o di danno grave alla persona, a causa dell'inevitabile turbamento della
coscienza generato dalla malattia, difficilmente è in grado di manifestare
liberamente il suo intendimento": "ma se così non è, il medico che
abbia adempiuto il suo obbligo morale e professionale di mettere in grado il
paziente di compiere la sua scelta e abbia verificato la libertà della scelta
medesima, non può essere chiamato a rispondere di nulla, giacché di fronte ad
un comportamento nel quale si manifesta l'esercizio di un vero e proprio
diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di segno contrario diviene
doverosa, potendo, diversamente, configurarsi a suo carico persino gli estremi
di un reato".
“La soluzione, tratta dai principi
costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di
astenersi da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del
paziente, anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma
nelle prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art.
35, "in presenza di documentato rifiuto di persona capace", il medico
deve "in ogni caso" "desistere dai conseguenti atti diagnostici
e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà
della persona".
Ha poi aggiunto la Cassazione, tenendo
conto della particolare condizione in cui versava -OMISSIS-, che “chi
versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso
pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a
partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a
maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di
provvedervi autonomamente.
La tragicità estrema di tale stato
patologico - che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla
toglie alla sua dignità di essere umano - non giustifica in alcun modo un
affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il Servizio sanitario
deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente
al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della
morte”.
Aggiunge poi la Corte di Cassazione: “Ma
- accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in
vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza - c'è
chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e
questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri
convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva
della percezione del mondo esterno.
Uno Stato, come il nostro, organizzato,
per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei
valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio
di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche
quest'ultima scelta”.
Rileva, inoltre, la Cassazione che:
“Non v'è dubbio che l'idratazione e
l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un
trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un
sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da
non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto
chimico implicanti procedure tecnologiche”.
A questo pronunciamento della Corte di
Cassazione ha fatto seguito il decreto della Corte di Appello di Milano,
pronunciato in sede di rinvio, che ha dettato le prescrizioni per l’esecuzione
del distacco del sondino naso-gastrico, nel rispetto della dignità della
persona disabile, indicando gli obblighi gravanti sul soggetto
istituzionalmente competente ad assicurare lo svolgimento del servizio
sanitario.
29. - Questo lungo richiamo alle
statuizioni contenute nella sentenza della Prima Sezione della Corte di
Cassazione del 16 ottobre 2007 n. 21748 è necessario – e determinante - per
valutare l’elemento psicologico dell’illecito, alla luce delle doglianze
proposte dalla Regione Lombardia, dirette a confutare non soltanto il dolo, ma
anche la colpa, in considerazione dell’asserita scusabilità dell’errore.
La tesi dell’appellante principale non può
essere condivisa.
Dopo questo chiarissimo pronunciamento da
parte della Corte di Cassazione, e dopo l’adozione del provvedimento emesso
dalla Corte di Appello in sede di rinvio, ritiene il Collegio che non potessero
sussistere seri dubbi circa la portata dell’obbligo della Regione di provvedere
a fornire la necessaria prestazione sanitaria, nel rispetto dell’accertato
diritto della persona assistita all’autodeterminazione terapeutica, presso una
delle strutture sanitarie regionali.
30. - Questa Sezione ha rilevato che il
diritto di rifiutare le cure, riconosciuto ad -OMISSIS- dalla Corte di
Cassazione, e, in sede di rinvio, dalla Corte di Appello di Milano, è un
diritto di libertà assoluto, efficace erga omnes. Pertanto, si
tratta di una posizione giuridica che può essere fatta valere nei confronti di
chiunque intrattenga il rapporto di cura con la persona, sia nell’ambito di
strutture sanitarie pubbliche che di soggetti privati.
Secondo la citata pronuncia della Sezione,
la sospensione del trattamento di sostegno vitale costituisce “la scelta
insindacabile del malato di assecondare il decorso naturale della malattia fino
alla morte” e “l’accettazione presso la struttura sanitaria pubblica non
può (…) essere condizionata alla rinuncia del malato ad esercitare un suo
diritto fondamentale”.
Non può condividersi, allora, la tesi
della Regione, diretta a sostenere che, all’epoca del provvedimento di rifiuto,
potessero ancora sussistere incolpevoli dubbi circa il proprio obbligo di
eseguire il trattamento sanitario richiesto dalla stessa persona assistita,
nell’esercizio della sua libertà di cura: tale obbligo, definito analiticamente
dalle pronunce del giudice civile intervenute sulla vicenda, discende
direttamente dalla natura e dall’oggetto del diritto riconosciuto alla persona
assistita, alla luce dei principi costituzionali direttamente applicabili.
Deve aggiungersi, inoltre, che la
Cassazione aveva chiaramente ed espressamente qualificato l’attività diretta
alla sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale dell’assistito
come trattamento sanitario, affrontando e risolvendo puntualmente proprio uno
dei profili più discussi e delicati della questione.
Sicché, all’epoca del provvedimento di
rifiuto, secondo parametri di ordinaria diligenza non poteva ragionevolmente
porsi in dubbio l’obbligo della Regione – che aveva già in cura la persona assistita
da ben 17 anni – di adottare, tramite le proprie strutture, le misure
corrispondenti al consenso informato espresso dalla persona, come definite
dalle pronunce del giudice civile, che aveva accertato – con decisione passata
in giudicato - l’esistenza di una idonea e valida manifestazione di volontà in
tal senso.
La Regione, pertanto, era tenuta a
continuare a fornirle la propria prestazione sanitaria, anche se in modo
diverso rispetto al passato, dando doverosa attuazione alla volontà espressa
dalla stessa persona assistita, nell’esercizio del proprio diritto fondamentale
all’autodeterminazione terapeutica.
Questi profili, riferiti
all’obbligatorietà dell’intervento della Regione, del resto, sono accuratamente
svolti nei paragrafi 46.1 e seguenti della sentenza di questa Sezione n. 4660
del 2014), ai quali si rinvia integralmente.
Non coglie nel segno nemmeno
l’affermazione dell’appellante secondo cui l’attuazione dell’obbligo imposto
dal giudice civile avrebbe comportato il rischio di responsabilità penali del
personale sanitario, con particolare riguardo alla fattispecie di cui all’art.
579 c.p.
Anche questo aspetto della questione ha
formato oggetto di approfondita analisi nella giurisprudenza del giudice
ordinario, che è da tempo attestato su esiti interpretativi univoci, certamente
conoscibili dall’amministrazione regionale mediante lo sforzo di ordinaria
diligenza esigibile da parte del soggetto responsabile istituzionalmente
dell’attività sanitaria.
In particolare, la stessa Corte di
Cassazione, nella sentenza n. 21748 del 2007 aveva richiamato la precedente
decisione della Prima Sezione Penale del 29 maggio – 11 luglio 2002, che si era
pronunciata in merito alla non responsabilità del sanitario in caso di rifiuto
di cure da parte della persona assistita (cfr. § 6.1).
Questo orientamento, del resto, risulta
confermato anche da pronunce successive del giudice penale, intervenute su
vicende analoghe a quella del presente giudizio, tutte basate sulla
riconosciuta prevalenza del diritto fondamentale alla autodeterminazione della
persona.
In ogni caso, il Collegio deve ribadire
che, al momento dell’adozione del provvedimento di rifiuto adottato dalla
Regione, l’esistenza di precise decisioni del giudice civile passate in
giudicato, non poteva lasciare margini di dubbio in ordine alla sussistenza
dell’obbligo di pronunciarsi nel senso della richiesta formulata dal titolare
del diritto.
Le ragioni che la difesa della Regione
adduce per invocare l’errore scusabile (e cioè l’assenza di una disciplina
legislativa, il contrasto tra gli studiosi del settore, i possibili problemi di
ordine penale per il proprio personale che si fosse prestato a dare esecuzione
alle pronunce giurisdizionali), potevano presentare rilevanza, molto
probabilmente, al momento in cui, per la prima volta, l’assistita aveva
richiesto di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica.
Ma tali motivi non potevano più influire
sull’asserito errore scusabile, in presenza di un giudicato che aveva accertato
il diritto al distacco del sondino naso-gastrico nel rispetto del principio
dell’autodeterminazione terapeutica della persona assistita (cfr. sul punto
anche la sentenza di questa Sezione n. 4460 del 2014 § 45.4 e seguenti),
esaminando e risolvendo accuratamente tutti gli aspetti controversi della
vicenda.
Sotto altro profilo, la Regione riprende
un argomento già esposto nel giudizio riguardante l’impugnazione del
provvedimento di rigetto, asserendo che il decreto della Corte di Appello non
avesse indicato con chiarezza il destinatario dell’obbligo di assicurare
l’esercizio del diritto alla autodeterminazione terapeutica.
Il punto è stato esaminato nei paragrafi
n. 65.1 e seguenti della citata sentenza n. 4460 del 2014, la quale ha indicato
la doverosità dell’attuazione della pronuncia della Corte di Appello di Milano
da parte della Regione.
Non sembra discutibile, infatti, che il
diritto alla libertà di cure dell’assistito si manifesti con pienezza nei
confronti dell’apparato istituzionalmente deputato allo svolgimento del servizio
sanitario.
Nel caso in esame, la Regione aveva
espresso un rifiuto assoluto (riguardante tutte le strutture facente parti del
servizio regionale), che non potrebbe essere in alcun modo giustificato dal
dubbio circa la titolarità dell’obbligo di svolgere prestazioni, già
qualificate dal giudice civile come sanitarie e quindi certamente rientranti
nella sfera dei compiti cui la Regione è obbligata.
In presenza di una pronuncia passata in
giudicato che riconosceva il diritto alla sospensione del trattamento di
alimentazione e idratazione, il potere discrezionale della Regione era
riconducibile alla sola scelta organizzativa della struttura più idonea ove
eseguire la prestazione sanitaria.
Il rifiuto della Regione, invece, è stato
illegittimamente basato sulla affermata insussistenza del dovere di svolgere la
prestazione indicata dal giudice civile.
Del resto, se davvero vi fossero stati
effettivi e incolpevoli dubbi sulla portata degli obblighi nascenti a proprio
carico dal provvedimento della Corte di Appello, la Regione, prima di adottare
un così perentorio rifiuto in merito alla diffida presentata dal ricorrente in
primo grado, avrebbe dovuto svolgere ulteriori approfondimenti critici,
svolgere un’istruttoria seria e puntuale, acquisire adeguati pareri legali,
mirati a verificare gli eventuali margini di possibile, legittimo, dissenso
dalle pronunce dei giudici.
Dagli atti di causa non emerge, invece,
alcuna pregressa incertezza in capo alla Regione, che nel provvedimento
impugnato ha chiaramente espresso il proprio netto rifiuto alla richiesta di
adottare le necessarie misure per dare esecuzione alla pronuncia
giurisdizionale, senza compiere alcun diligente sforzo diretto a comprovare la
fondatezza dei prospettati dubbi applicativi.
Neanche dopo le successive pronunce
giurisdizionali tutte contrarie alla propria tesi (Cass. SSUU 13 novembre 2008
n. 27145; Corte Costituzionale 8 ottobre 2008 n. 334, Corte EDU, Sezione
Seconda, 16 dicembre 2008) e neppure dopo la sentenza del TAR che aveva
annullato l’atto, la Regione ha inteso rivedere la propria posizione.
Se davvero la Regione avesse male
interpretato la decisione giurisdizionale per le ragioni addette oggi dalla
difesa dell’ente, o se avesse colpevolmente violato l’obbligo di diligenza e di
prudenza di cui all’art. 1176, comma, 2 c.c., omettendo di approfondire una
problematica ritenuta particolarmente complessa, acquisendo i necessari
chiarimenti tecnici, dopo le pronunce giurisdizionali sopra citate, ed ancor
più dopo la sentenza del TAR, avrebbe dovuto rivedere la propria decisione,
alla luce delle successive decisioni: nulla di ciò è però accaduto in quanto la
Regione ha poi continuato a tenere fermo il proprio orientamento.
Ritiene tuttavia il Collegio che debba
essere parzialmente rettificata la conclusione cui è pervenuta l’appellata
sentenza del TAR, la quale ha ritenuto senz’altro “dolosa” la condotta
dell’amministrazione regionale, anziché colposa. In sintesi, a parere del
giudice di primo grado, l’evidenza della violazione del giudicato civile potrebbe
indurre a ritenere che il provvedimento di rifiuto illegittimo si sostanzi nel
consapevole e volontario inadempimento di un preciso dovere giuridico.
Questo esito, per quanto ragionevolmente
motivato dal TAR, non risulta pienamente persuasivo.
In linea generale, infatti, il dolo
non presuppone necessariamente e soltanto – come asserito, invece, dalla difesa
della Regione – la volontarietà di nuocere, di arrecare
pregiudizio. Tale impostazione rimanda ad una connotazione di tipo “etico”, più
propria del diritto penale (e di quello punitivo in genere) piuttosto che di
quello civile e amministrativo.
La configurazione del dolo ricorre,
invece, anche quando il soggetto agente – pur non finalizzando il proprio
comportamento alla realizzazione di un pregiudizio, decida volontariamente di
non adempiere, assumendo un atteggiamento ostruzionistico, renitente,
oppositivo, pur avendo la certezza – soggettiva – della sussistenza
dell’obbligo.
Ora, nel caso di specie, è fuori
discussione che, in capo all’amministrazione regionale fosse assente qualsiasi
intento di nuocere deliberatamente agli interessi della
persona assistita. È vero semmai il contrario e cioè che, dal suo unilaterale
punto di vista soggettivo, la Regione avesse ritenuto di adottare le condotte
più opportune per tutelare il “bene” della vita della persona, ritenuto
intangibile e recessivo anche a fronte del diritto all’autodeterminazione della
persona.
Pertanto, si può senz’altro escludere che
sussista, nella presente vicenda, il dolo della Regione, nella
sua accezione più estrema, quale consapevolezza e volontarietà di arrecare un
danno ingiusto, in violazione dei doveri gravanti sul soggetto.
Resta però da verificare se, proprio alla
luce dello svolgimento delle ultime fasi della vicenda, sia configurabile il
dolo della Regione nella sua dimensione più lata, intesa come piena
consapevolezza della esistenza del dovere e della deliberata volontà di non
adempierlo.
A questo riguardo, occorre valutare
esclusivamente i contenuti del provvedimento di rifiuto e le condotte
dell’amministrazione ad esso direttamente collegate, senza attribuire
significativo risalto – nel contesto del presente giudizio – alle
manifestazioni di critica e di dissenso espresse, anche con forti accenti,
amplificati dai media, dagli organi di vertice della Regione.
Il provvedimento di diniego, nel suo
oggettivo significato, non sembra potersi ridurre ad una mera acritica “ribellione”
alle decisioni del giudice civile, incentrata sulla pura e semplice volontà di
non dare seguito ad una pronuncia non condivisa nei suoi contenuti
prescrittivi.
L’atto, invece, manifesta lo scopo di
individuare alcune possibili ragioni di carattere giuridico e fattuale,
ritenute idonee, nella prospettiva della Regione, a sorreggere il rifiuto di
eseguire le prestazioni richieste dall’avente diritto.
Nel presente giudizio amministrativo non è
possibile, né necessario, indagare sull’intimo percorso “psicologico” che
potrebbe avere condotto i dirigenti e i funzionari della Regione Lombardia alla
formazione del provvedimento e alla sua motivazione.
È sufficiente rilevare che le ragioni
indicate nell’atto non si riducono ad una frontale e apodittica volontà di non
adempiere, ma esprimono, comunque, l’asserita – per quanto infondata -
convinzione dell’assenza di un puntuale obbligo di esecuzione.
Tali considerazioni, pertanto, inducono la
Sezione a ritenere che, allo stato degli elementi istruttori emersi in corso di
causa, e in relazione alle finalità proprie del presente processo risarcitorio,
non sia adeguatamente dimostrato l’atteggiamento doloso della Regione,
riguardata nel complesso del suo apparato.
Tuttavia, alla riconosciuta mancanza di
prova del dolo si deve contrapporre l’accertamento della sicura ricorrenza
della colpa dell’amministrazione.
Al riguardo, occorre richiamare tutte le
considerazioni ampiamente sviluppate nella precedente decisione della Sezione e
nella presente sentenza.
Tutti gli argomenti prospettati dalla
Regione per ridimensionare o escludere il proprio dovere di prestazione sono in
evidente contraddizione con gli accertamenti espressi dalle pronunce del
giudice che si sono succedute sulla questione e manifestano, come si è già
sottolineato, la sicura colpa dell’amministrazione regionale.
La determinazione adottata dalla Regione,
come già rilevato, denota una palese carenza di diligenza e non sono emersi
indizi adeguati di un possibile “errore scusabile”, tale da escludere
l’elemento soggettivo della responsabilità.
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha
colposamente rifiutato di prestare la propria collaborazione all’esecuzione del
provvedimento della Corte di Appello, manifestando un ingiustificato
atteggiamento oppositivo, idoneo ad ostacolare l’attuazione della statuizione
coperta da giudicato, in quanto non solo e non tanto perché “eticamente” non
condivisa, ma anche, e soprattutto trincerandosi dietro l’asserita mancata
individuazione da parte della Corte di Appello della specifica struttura
deputata all’esecuzione del proprio provvedimento, non tenendo conto che,
trattandosi di trattamento sanitario (così qualificato dalla Corte di
Cassazione) da eseguire su una persona assistita in carico al Servizio
Sanitario da anni, il suo compito non potesse che essere quello di individuare
la specifica struttura sanitaria ove dare esecuzione alla pronuncia
giurisdizionale.
L’interesse in gioco, come ha ritenuto la
dottrina, poteva essere inquadrato, infatti, nella categoria degli interessi
legittimi c.d. “a risultato garantito”, poiché, all’esito dei giudizi civili
definiti con pronunce passate in giudicato, la parte privata aveva titolo in
base al giudicato al conseguimento del risultato che intendeva perseguire,
conforme al diritto fondamentale della persona riconosciutole.
31. - La sentenza del TAR merita di essere
confermata anche nella parte in cui ha riconosciuto l’esistenza del nesso
causale tra il rifiuto regionale e il pregiudizio subito dagli interessati:
infatti, l’atto amministrativo illegittimo ha leso la posizione giuridica di
cui era portatrice -OMISSIS-, rappresentata dal tutore, negandole il bene della
vita che le era stato riconosciuto in sede giurisdizionale, costituito dal suo
diritto a rifiutare le cure, espressione, a sua volta, del fondamentale diritto
di libertà di autodeterminazione terapeutica, accertato con efficacia di
giudicato. L’illegittimo rifiuto della Regione, ha comportato, inoltre, la
violazione del suo diritto all’effettività della tutela giurisdizionale.
Nel caso di specie il danno ingiusto si
concretizza, infatti, nella violazione di due diritti fondamentali: quello di
rifiutare le cure, fondato sugli artt. 2, 3, 13, 32 Cost. e quello
all’effettività della tutela giurisdizionale, fondato sugli artt. 24 Cost. e 6
par. 1 e 13 della Convenzione EDU, nonché dell’art. 47 della Carta dir. UE.
Come già accennato, essendo in presenza di
un interesse legittimo “a risultato garantito” non è necessaria l’indagine
prognostica sulla spettanza del bene della vita, essendo stato
tale bene già riconosciuto in sede giurisdizionale, sopperendo alla mancanza di
una specifica disciplina legislativa.
Ciò comporta l’infondatezza della tesi
regionale, diretta a sostenere che non vi sarebbe stata certezza sul punto
(tenuto anche conto del rifiuto di altre strutture sanitarie e dei contrasti
esistenti sulla problematica in ambito scientifico ed etico), in quanto la
spettanza del bene della vita era assicurata dal contenuto della pronuncia
giurisdizionale che, per propria natura, non avrebbe potuto essere disattesa,
pena la violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, e
della certezza del diritto, che rendeva obbligatoria l’esecuzione della
pronuncia della Corte di Appello, emessa in sede di rinvio dopo la decisione
della Corte di Cassazione.
Quanto all’individuazione del soggetto
destinatario dell’obbligo di assistenza sanitaria, può farsi rinvio a quanto in
precedenza evidenziato, il che comporta il rigetto della prospettazione della
difesa regionale, secondo cui non sussisterebbe il nesso di causalità tra
l’adozione del provvedimento annullato il sede giurisdizionale ed il danno
patito, tenuto conto che anche altre strutture sanitarie si erano rifiutate di
prestare attuazione al decreto della Corte di Appello di Milano.
Né può ritenersi che l’intervento del
Ministro della Salute possa avere assunto un’efficienza causale alla produzione
dell’evento dannoso, essendo successivo all’illecito.
Ne consegue che ricorre sicuramente il
rapporto di causalità tra l’atto amministrativo illegittimo ed il danno evento,
costituito dalla violazione dei diritti fondamentali della persona assistita.
Ricorre, anche, il secondo rapporto di
causalità tra il danno evento ed il danno conseguenza, in quanto l’impedimento
frapposto dalla Regione all’esecuzione del giudicato ha prodotto perdite sia
patrimoniali che non patrimoniali, come meglio precisato in seguito, con
riferimento a ciascuna delle voci di danno in contestazione.
32. – Pertanto, con le puntualizzazioni
sopra evidenziate, deve essere confermata la sentenza del TAR, nella parte in
cui ha riconosciuto la sussistenza di tutti gli elementi della responsabilità
risarcitoria della Regione.
Devono essere ora esaminate le censure
della Regione riguardanti la determinazione del danno risarcibile.
In particolare, con il terzo motivo
dell’appello principale, la Regione contesta la decisione del TAR, nella parte
in cui ha accolto la domanda risarcitoria relativa al danno patrimoniale.
Il TAR ha accolto la domanda riconoscendo
la somma complessiva di € 12.965,78, così ripartita: € 647,10 legati al costo
del trasporto della persona assistita; € 470,00 quale retta per la degenza; €
11.848,68 per costi legati al piantonamento fisso, oltre agli interessi legali
dal momento dell’esborso e fino alla data di pubblicazione della sentenza.
Ha ritenuto che: “in ragione della
peculiare situazione che si era venuta a creare – anche a causa del rifiuto
regionale di interrompere le cure – e per la difficoltà di individuare
celermente una struttura fuori Regione, disposta ad eseguire il trattamento di
interruzione di alimentazione e idratazione della figlia, non sarebbe stato
concretamente possibile effettuare approfondite verifiche in ordine ai costi
dei vari servizi e alla loro eventuale rimborsabilità da parte del S.S.N.
(quest’ultimo certamente difficile da ottenere, visto il complessivo comportamento
regionale); quanto alle spese di piantonamento, le stesse appaiono giustificate
avuto riguardo alla risonanza mediatica della vicenda, ampiamente dimostrata
dagli articoli di stampa allegati agli atti di causa”.
33. - Con riferimento alla spese di trasporto
la Regione ha dedotto che sono in genere a carico del persona assistita le
spese per i trasferimenti: la struttura dove si trovava -OMISSIS- aveva già
rifiutato di eseguire la prestazione e quindi la persona avrebbe dovuto essere
comunque trasferita.
Mancherebbe quindi il nesso di causalità
immediata e diretta ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c.
34. - La censura non può essere condivisa.
Facendo applicazione del principio di
causalità giuridica è del tutto evidente che ove la Regione avesse messo a
disposizione della persona assistita una struttura nel territorio regionale,
anziché rifiutarsi, il Sig. -OMISSIS- non avrebbe sopportato le spese del
trasferimento in Friuli Venezia Giulia; in ogni caso le eventuali spese di
trasferimento infraregionale (per le quali non vi è affatto certezza che
sarebbero necessariamente gravate sulla persona assistita) sarebbero state
sicuramente più contenute.
Dette considerazioni valgano anche per
quanto concerne le spese relative alla retta di degenza, che sono state
corrisposte in quanto la Regione si è rifiutata di individuare una struttura
nella quale prestare assistenza alla persona assistita.
Né può ritenersi che l’omessa
presentazione della richiesta di rimborso alla ASL possa costituire la concausa
determinante il danno, ai sensi dell’art. 1227 c. 2 c.c., idonea ad
interrompere il nesso eziologico, per due ordini di ragioni: correttamente il
TAR ha fatto riferimento all’urgenza di provvedere tenuto conto che erano
trascorsi ormai molti mesi dalla pubblicazione del provvedimento della Corte di
Appello che dettava la disciplina per operare il distacco del sondino
naso-gastrico, e l’ulteriore ritardo nell’attesa che gli uffici esaminassero la
domanda non era sicuramente esigibile in base al principio di buona fede e di
diligenza; inoltre, tenuto conto dell’orientamento manifestato dalla Regione
può ragionevolmente presumersi, sulla base del principio del “più probabile che
non” che l’istanza sarebbe stata respinta, il che implica l’inutile perdita di
tempo connessa alla presentazione della domanda.
Infine, per la particolare natura della
prestazione da eseguirsi, per la quale era stata condotta una battaglia legale
decennale, e per l’urgenza di veder compiuta la volontà della persona
assistita, non poteva ritenersi esigibile lo svolgimento di “ricerche di
mercato” con la redazione di “preventivi” per le spese relative al
trasferimento – attuato di notte per sottrarsi al clamore mediatico che la
vicenda aveva assunto – o per la ricerca della struttura che, a minor costo, si
fosse resa disponibile a dare attuazione alla volontà espressa dalla persona
assistita, come riconosciuta in seguito ad un lunghissimo iter processuale con
decisione ormai definitiva.
Peraltro, la Regione non ha neppure
addotto un elemento di prova al fine di sostenere che le spese sopportate dal
ricorrente in primo grado, a causa del diniego ritenuto illegittimo, fossero
palesemente sproporzionate.
La doglianza deve essere quindi respinta.
35. - La Regione censura, inoltre, il capo
di sentenza che ha riconosciuto il risarcimento delle spese relative al
piantonamento fisso presso la struttura nella quale la persona assistita era
stata ricoverata, e presso cui è poi deceduta il 9 febbraio 2009.
Il TAR ha accolto tale domanda
risarcitoria rilevando che apparivano giustificate dalla risonanza mediatica
che aveva assunto la vicenda, come dimostrata dagli articoli di stampa prodotti
in giudizio.
Ritiene la Regione che manchi in questo
caso il nesso di causalità immediata e diretta tra il provvedimento
amministrativo e la necessità del piantonamento fisso dinanzi alla clinica, sia
perché la struttura sanitaria era già sorvegliata da polizia e carabinieri, sia
perché il clamore mediatico non era direttamente riconnesso al provvedimento
regionale.
Secondo la Regione, ben altri erano i
soggetti che avevano contribuito al clamore mediatico, organizzando
manifestazioni a favore della vita, sit-in sotto alla clinica,
e così via, sicché ad essi sarebbero state riconducibili, e non alla Regione,
le esigenze di protezione della persona assistita che avevano indotto il Sig.
-OMISSIS- a richiedere il piantonamento fisso.
36. - L’accertamento del nesso di
causalità immediata e diretta ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c. con
riferimento a tale voce di danno postula l’inquadramento della problematica con
riferimento ai casi in cui vengano in rilievo le c.d. “catene causali”, in cui
– cioè – non vi è un unico fatto causativo del danno, ma dal fatto originario
si innestano successivi fatti che possono aver concorso anch’essi, in varia
misura, alla verificazione dell’evento dannoso.
La problematica va quindi risolta alla
stregua dei principi della causalità giuridica, secondo cui solo se l’ultima
causa può ritenersi imprevedibile, in applicazione del principio dell’id
quod plerumque accidit, può ritenersi che essa sia idonea ad interrompere
la catena causale costituendo essa stessa l’unico fatto idoneo alla produzione
del danno. (Cass. Sez. Terza, n. 11609 del 31/05/2005; Cass. Sez. Prima, n.
26042 del 23/12/2010)
In altre parole, occorre verificare se – a
fronte dell’adozione del provvedimento della Regione Lombardia, e del clamore
ad esso connesso derivante innanzi tutto dalla sua divulgazione,
da ritenersi imputabile alla stessa
Regione - l’organizzazione di manifestazioni, i sit-in sotto
la clinica, la presenza di telecamere e di giornalisti, la possibile presenza
di facinorosi infiltratisi tra i semplici e pacifici manifestanti, con il
conseguente rischio di lesione del diritto al rispetto della dignità umana
della persona assistita ormai prossima alla fine della propria esistenza,
potesse ritenersi un evento del tutto imprevedibile, con la conseguente
interruzione del nesso causale tra l’adozione e successiva divulgazione del
provvedimento impugnato, e l’adozione da parte del ricorrente in primo grado di
misure eccezionali, quali il piantonamento fisso dinanzi alla struttura ove era
ricoverata la figlia, nonostante la vigilanza prestata dalla Forze dell’Ordine,
al fine di garantirle il dovuto rispetto.
37. - Ritiene il Collegio, sulla base del
principio del più probabile che non, che tale clamore mediatico con i connessi
riflessi incidenti sul rispetto della dignità della persona gravemente malata –
tenuto conto del tenore del provvedimento e della sua pubblicizzazione presso
la stampa – non presentino quegli elementi di straordinarietà ed
imprevedibilità che, secondo la giurisprudenza, comportano l’interruzione del
nesso eziologico: ne consegue che, anche per quanto concerne il danno derivante
dalle spese di piantonamento sussiste il nesso casuale ai sensi degli art. 1223
e 2056 c.c.
Anche su questo specifico punto, la
sentenza di primo grado deve essere quindi confermata.
38 - Deve essere ora esaminato l’appello
principale relativo al capo di sentenza con il quale il TAR ha accolto la
domanda risarcitoria proposta iure hereditatis dal ricorrente
in primo grado, condannando la Regione Lombardia a corrispondergli la somma di
€ 20.000,00.
Con il ricorso in appello lamenta
innanzitutto la Regione la violazione dell’art. 112 c.p.c. rilevando che nel
ricorso introduttivo del giudizio il ricorrente in primo grado aveva agito
soltanto in proprio e nella qualità di tutore della figlia: il TAR, invece,
avrebbe riconosciuto anche il diritto al risarcimento del danno iure
hereditatis, in violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c.
39. - La doglianza non può essere
condivisa.
Secondo il costante orientamento della
giurisprudenza, il giudice dispone del potere di interpretazione sostanziale
della domanda, potendo accertare la "reale volontà della parte avuto
riguardo alla finalità perseguita, quale emergente non solo in modo formale
dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nell'atto introduttivo,
ma anche implicitamente ed indirettamente dall'intero contenuto dell'atto che
la contiene e dallo scopo pratico perseguito dall'istante nel ricorrere
all'autorità giudiziaria" (ex multis Cass. n. 5743/2008, Cass.
n. 3041/2007, Cass. n. 8107/2006, Cass. n. 18653/2004, Cass. Sez. Un. n.
10840/2003, Cass. n. 11861/1999).
Nella sentenza di primo grado il TAR ha
indicato gli specifici punti del ricorso nel quale la domanda iure
hereditatis era stata proposta: ne consegue che l’omessa
qualificazione dell’attore nell’intestazione del ricorso come agente in qualità
di erede, non impedisce al giudice di valutare l’effettivo contenuto della
domanda.
Nel caso di specie, poiché il ricorrente
aveva avanzato tale domanda risarcitoria nelle pagine 25 e 44-45 del ricorso
introduttivo, la sentenza non è affetta dal vizio di extrapetizione.
La doglianza deve essere quindi respinta.
40. - La Regione, in ogni caso, contesta,
nel merito, la pronuncia riguardante il diritto al risarcimento del danno,
spettante, iure hereditatis, al Sig. -OMISSIS-.
Prima di passare ad esaminare il motivo di
appello, è opportuno richiamare il tenore del capo di sentenza impugnata.
Il TAR ha accolto la domanda ritenendo che
il comportamento della Regione avesse leso il diritto fondamentale della
persona assistita all’autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di
non ricevere cure, ed il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale.
Ha quindi condannato la Regione al
risarcire il Sig. -OMISSIS-, in qualità di erede della figlia -OMISSIS-,
liquidando a pag. 15 della sentenza la somma di € 20.000,00 pari ad un terzo
della somma spettante alla de cuius sul presupposto costituito
dall’incertezza sulla qualità di unico erede.
Nel dispositivo (pag. 19), invece, il TAR
ha riconosciuto a tale titolo la somma di € 30.000,00.
Vi è dunque discrepanza tra gli importi
riconosciuti in motivazione e nel dispositivo.
E’ opportuno precisare fin d’ora che
l’importo indicato nel dispositivo è frutto di un evidente errore materiale, in
quanto in sede di motivazione il TAR ha puntualmente indicato l’intero importo
spettante alla totalità degli eredi, provvedendo poi alla ripartizione in tre
parti.
Deve quindi ritenersi che il risarcimento
riconosciuto al Sig. -OMISSIS- a titolo ereditario da parte del TAR per la
Lombardia sia pari ad € 20.000,00, come indicato a pag. 15 della sentenza, e
non pari ad € 30.000,00 come erroneamente riportato nel dispositivo.
41. - Nel ricorso in appello la Regione ha
dedotto che:
- la natura giuridica della responsabilità
civile è essenzialmente riparatoria;
- se il danno non è più riparabile, perché
è intervenuto il decesso del danneggiato, la responsabilità si estingue e la
pretesa risarcitoria non può essere trasmessa agli eredi (cfr. Cass. SS.UU.,
22/07/2015, n. 15350);
- la risarcibilità del danno iure
hereditatis presuppone la “lucidità” della vittima: la
giurisprudenza civile esclude la risarcibilità del danno quando il danneggiato
si trova in stato di coma, o non sia rimasto lucido nella fase che precede il
decesso.
Ribadisce, inoltre, gli argomenti già
spesi per sostenere la mancanza dell’elemento soggettivo, puntualizzati con
riguardo a questa componente specifica della condanna al risarcimento del
danno:
- la decisione della Corte di Appello non
avrebbe indicato espressamente alcun onere in capo al servizio sanitario
regionale;
- la decisione del padre/tutore di
trasferire la figlia a distanza di pochi giorni dalla sentenza del TAR avrebbe
impedito alla Regione di determinarsi;
- la complessità della situazione sarebbe
stata tale da escludere l’imputabilità della condotta in capo alla Regione.
Aggiunge infine l’appellante che la
condanna al risarcimento del danno ereditario non sarebbe supportato da alcun
elemento di fatto e di diritto.
41.1 - Questo capo di sentenza è oggetto
anche dell’appello incidentale del Sig. -OMISSIS-, relativamente alla parte
relativa alla quantificazione del risarcimento del danno: l’appellante
incidentale ha concluso chiedendo la condanna della Regione Lombardia al
pagamento della somma di € 100.000,00 a titolo di danno iure
hereditatis.
42. - La doglianza prospettata con
l’appello principale non può essere condivisa.
La Regione ha richiamato a sostegno della
propria impugnativa la giurisprudenza della Corte di Cassazione (sulla quale è
intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza del 22 luglio 2015,
n. 15350) sulla risarcibilità o meno iure hereditatis del
danno da perdita della vita (cosiddetto danno tanatologico),
immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito.
Tale questione – risolta con orientamento
inizialmente consolidato dalla stessa Corte a partire dal lontano 1925 – era
stato posto in discussione con una pronuncia di poco anteriore (Cass., Sez.
Terza, 23 gennaio 2014 n. 1361).
Nella giurisprudenza della Cassazione non
si è mai invece dubitato, invece, sulla risarcibilità iure hereditatis del
danno derivante dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle
lesioni stesse, atteso che tale diritto si acquisisce al patrimonio del
danneggiato ed è quindi suscettibile di trasmissione agli eredi.
Nella richiamata decisione delle Sezioni
Unite n. 15350/2015 ricorda la Corte di Cassazione che il danno da perdita
della vita è indicato talvolta come "danno biologico terminale"
(Cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del
1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003, n 9620 del 2003, n.
11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n. 1877
del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del
2011), e, talvolta, invece, è classificato come danno "catastrofale"
(con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa
della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno
"catastrofale", inoltre, per alcune decisioni, ha natura di danno
morale soggettivo (Cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del 2010,
n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del 2013, n.
13537 del 2014) e per altre, di danno biologico psichico (Cass. n. 4783 del
2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del 2011).
La Corte, a partire dalla pronuncia a
Sezioni Unite del 22 dicembre 1925 n. 3475, ha costantemente ritenuto che nel
caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle
lesioni, non possa essere invocato un diritto al risarcimento dei danni iure
hereditatis.
Ricorda la Corte che tale orientamento ha
trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 372
del 1994 e, nella sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008 e si è
mantenuto costante nella giurisprudenza della Cassazione.
Nel caso di morte cagionata da atto
illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene
giuridico "vita" che costituisce bene autonomo, fruibile solo in
natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente
(Cass. n. 1633 del 2000; n. 7632 del 2003; n. 12253 del 2007). La morte,
quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene
"salute", pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la
morte, diverse essendo, ovviamente, le perdite di natura patrimoniale o non
patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in
quanto tali e non in quanto eredi (Corte cost. n. 372 del 1994; Cass. n. 4991
del 1996; n. 1704 del 1997; n. 3592 del 1997; n. 5136 del 1998; n. 6404 del 1998;
n. 12083 del 1998, n. 491 del 1999, n. 2134 del 2000; n. 517 del 2006, n. 6946
del 2007, n. 12253 del 2007). E poichè una perdita, per rappresentare un danno
risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato
a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi
immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali,
l'irrisarcibilità deriva dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in
cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa
essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno
spazio di vita brevissimo (Cass. n. 4991 del 1996).
43. - Sempre mutuato dalla giurisprudenza
della Corte di Cassazione è l’ulteriore argomento richiamato dalla difesa della
Regione, e relativo alla piena coscienza del danneggiato: ha rilevato la difesa
dell’appellante principale che sussisterebbe la risarcibilità del danno iure
hereditatis solo quando la vittima sia stata effettivamente in
condizione di percepire il proprio stato, lucidamente assistendo agli eventi,
dovendosi invece escludere la risarcibilità del danno quando il danneggiato si
trovava in stato di coma e non era rimasto lucido nella fase che precede il
decesso (cfr. Cass. Sez. III 28/11/2008 n. 28423).
E’ stato infatti ritenuto che “la paura di
morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse
saranno letali, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima
sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente, sicché, in
difetto di consapevolezza, non è nemmeno concepibile l’esistenza del danno in
questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata da
lesioni” (Cass. Sez. III, 13/6/2014 n. 13537).
44. - I principi giurisprudenziali
richiamati dalla Regione riguardano, entrambi, il fatto illecito che ha leso
l’integrità fisica del danneggiato, e ha determinato, in seguito la morte della
vittima, ed investe la pretesa risarcitoria iure hereditatis di
tale danno da parte di un familiare.
Si tratta, però, di una situazione del
tutto differente da quella oggetto del presente giudizio, nella quale il danno
arrecato ad -OMISSIS- – del quale il Sig. -OMISSIS- chiede il ristoro iure
hereditatis - non investe la lesione della sua integrità fisica,
seguita poi dalla morte. Nella vicenda in esame il pregiudizio deriva, invece,
non dalla perdita del diritto alla vita, ma dalla violazione del suo diverso
diritto all’autodeterminazione terapeutica e all’effettività della tutela giurisdizionale.
Su questo specifico tema, la
giurisprudenza della Cassazione non ha ancora elaborato un consolidato
indirizzo interpretativo, tenendo conto della novità del tema.
Trattandosi di danno non patrimoniale, è
necessario accertare se sia riconducibile al novero dei pregiudizi per i quali,
secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ammessa la
risarcibilità.
Poiché vige il principio di tipicità del
danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., la risarcibilità di tale danno deve
ritenersi possibile nei casi previsti dalla legge, ovvero quando ricorra un
evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili
della persona (cfr. Cassazione SS.UU. 11/11/2008 n. 26972).
Nel caso di specie, il diritto a rifiutare
le cure, trova il proprio fondamento negli artt. 2, 3, 13, 32 Cost.; il diritto
alla effettività della tutela giurisdizionale si fonda sull’art. 24 Cost.,
nonché sugli artt. 6 par. 1 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (CEDU), e sull’art. 47 della Carta dir.
EU: si tratta dunque di diritti inviolabili della persona.
Del resto neppure l’appellante formula
specifiche censure sul punto, appuntando le proprie doglianze asserendo che non
sussisterebbe responsabilità, da un lato perché il danno non sarebbe riparabile
(ricordando che la responsabilità ha esclusivamente natura riparatoria e non
sanzionatoria), e dall’altro perché la dante causa, versando in stato
vegetativo, non disponeva della “c.d. lucida coscienza”.
45. - Il richiamo alla giurisprudenza
della Corte di Cassazione sulla irrisarcibilità iure hereditatis del
danno da morte immediata conseguente a lesioni è del tutto inconferente, e
comunque neppure può utilizzarsi nel caso di specie la logica sulla quale si
fonda tale giurisprudenza, atteso che dopo il giudicato la persona –
rappresentata dal suo tutore e dal curatore speciale - aveva acquistato il
diritto a disporre della propria vita e di tale diritto è rimasta titolare per
un apprezzabile intervallo di tempo.
Detto diritto, essendosi consolidato in
capo alla de cuius, dopo la morte si è trasmesso agli eredi.
Gli importanti argomenti espressi dalla
giurisprudenza della Cassazione, e in particolare, nella citata sentenza delle
Sezioni Unite, non possono dunque essere trasposti nel caso di specie.
46. - Né può ritenersi ostativa al
riconoscimento del danno la condizione della persona assistita che, versando
nello stato vegetativo, non disponeva della c.d. “lucida coscienza”, perché nel
caso di specie non viene in rilievo il ristoro di un danno da sofferenza
psichica che presuppone – appunto - la consapevolezza della sofferenza, e
quindi la c.d. “lucida coscienza”: il danno subito dalla persona deriva dal
mancato rispetto della sua libertà di autodeterminazione, del quale ha ottenuto
il riconoscimento dopo un lungo iter processuale, avvalendosi del proprio
tutore e di un curatore speciale, che l’hanno rappresentata in giudizio.
47. - Infine, la responsabilità derivante dalla
violazione del principio di autodeterminazione terapeutica trova costante
applicazione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: persistono dubbi
solo sulla risarcibilità della mera lesione del principio
dell’autodeterminazione a prescindere dagli esiti del trattamento sanitario,
ovvero dalla riconoscibilità del diritto al risarcimento solo ove alla
violazione di tale diritto sia conseguito un danno alla persona (cfr. Cass.
9/2/2010 n. 2847; Cass. 10/3/2010 n. 6045; Cass. 8/5/2015 n. 9331) (cfr. in
generale sul danno non patrimoniale da lesione del diritto
all’autodeterminazione al trattamento sanitario anche Cass. Sez. III 20/4/2016
n. 7766).
Ritiene dunque il Collegio che nessuno
degli argomenti utilizzati dalla difesa della Regione sia idoneo a dimostrare
l’insussistenza del danno iurehereditatis in capo
all’appellato.
Quanto agli aspetti relativi alla asserita
mancanza del nesso di causalità tra il fatto illecito ed il danno, ovvero in
merito all’aspetto psicologico, valgono i principi già richiamati in
precedenza.
48. - Residua la disamina della censura
sollevata dall’appello incidentale e relativa alla quantificazione del danno
liquidato al ricorrente in primo grado a titolo di danno non patrimoniale iure
hereditatis.
La doglianza è fondata, nei sensi di
seguito precisati.
Ritiene il Collegio che il danno più grave
in questa vicenda l’abbia subito la stessa Sig.ra -OMISSIS-, la quale, a causa
del provvedimento adottato dalla Regione, ha subito la violazione del proprio
diritto - di valenza costituzionale e coperto dal giudicato -
all’autodeterminazione in materia di cure; a causa di tale atto la persona ha
subito – contro la sua volontà – il non voluto prolungamento della sua
condizione, essendo stata calpestata la sua determinazione di rifiutare una
condizione di vita ritenuta non dignitosa, in base alla libera valutazione da
essa compiuta.
Tale danno deve trovare un idoneo ristoro
tenuto conto della gravità degli interessi lesi e della colposità della
condotta lesiva tenuta dalla Regione.
Trattandosi di danno non patrimoniale, la
liquidazione deve essere disposta in via equitativa (Cass. 2008; Cass. Civ.
Sez. III, 23/1/2014 n. 1361), tenendo conto dei suddetti parametri.
Ritiene quindi il Collegio di dover
modificare il quantum stabilito dal primo giudice, perché la
somma complessiva riconosciuta non appare adeguata alla gravità del pregiudizio
arrecato, ed anzi si appalesa illogica, anche ove confrontata con la somma
riconosciuta a titolo di risarcimento del danno iure proprio a
favore del Sig. -OMISSIS-, come se fosse maggiore il danno a lui arrecato
rispetto a quello subito della figlia, destinataria diretta del provvedimento
illegittimo.
Inoltre, non essendovi prova
dell’esistenza di altri eredi al di fuori del Sig. -OMISSIS-, la riduzione ad
un terzo del risarcimento riconosciuto non risulta giustificata.
49. - Ritiene quindi il Collegio di dover
rideterminare il quantum , liquidando la somma di € 100.000 a titolo di danno
non patrimoniale iure hereditatis a favore dell’appellante incidentale.
50. - Deve essere ora esaminato l’appello
principale avverso il capo di sentenza che ha accolto la domanda risarcitoria
proposta dal ricorrente in primo grado iure proprio, liquidandogli
la somma di € 100.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, per lesione alle
relazioni familiari e al rapporto parentale. Al riguardo, la Sezione osserva
preliminarmente che non forma oggetto di appello la questione riguardante la
legittimazione ad agire – davanti al giudice amministrativo – del soggetto che
lamenti il danno correlato alla lesione del diritto alla integrità delle
relazioni familiari, provocato da un provvedimento illegittimo destinato a
produrre effetti giuridici diretti nella sfera patrimoniale di un prossimo
congiunto. Pertanto, su tale punto si è formato un giudicato (implicito) che
non potrebbe essere rimesso in discussione d’ufficio dal giudice.
51. - Con riferimento a tale domanda il
TAR ha ritenuto che “si tratta di un pregiudizio a diritti fondamentali
che trovano la loro fonte diretta nella Costituzione, atteso che nell’art. 2059
c.c. trova adeguata collocazione anche la tutela riconosciuta ai soggetti che
abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost)
(sent. n. 8827 e 8828 del 2003), concernenti la fattispecie del danno da
perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di
procurata grave invalidità del congiunto) (Cass. SS.UU., 11 novembre 2008 n.
26972)”.
Ha poi ricordato il TAR che tale danno può
essere provato anche sulla base di presunzioni.
Ha quindi ritenuto che la persistenza
dello stato vegetativo conseguente al provvedimento regionale illegittimo
avesse aggravato le difficoltà ed i turbamenti patiti dal Sig. -OMISSIS-, che
aveva assunto anche la veste di tutore, vanificando gli effetti del decreto
della Corte di Appello di Milano del 9 luglio 2008, tanto che, la vita
familiare, già sconvolta da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di
vita, fosse stata ulteriormente turbata dall’ostruzionismo della Regione
Lombardia che aveva impedito al Sig. -OMISSIS- di dare seguito alla volontà
della figlia di non continuare a vivere in quello stato di incoscienza
permanente.
Il primo giudice ha quindi riconosciuto al
Sig. -OMISSIS- la somma di € 100.000,00 per tale danno non patrimoniale: nella
quantificazione del danno il TAR ha tenuto conto, da un lato, della sua natura
catastrofale, e dall’altro della dolosità della condotta lesiva.
52. - Nel ricorso in appello la Regione
Lombardia ha innanzitutto richiamato la decisione delle Sezioni Unite dell’11
novembre 2008 n. 26792, sull’unicità del danno non patrimoniale, nella quale è
stato precisato che le varie categorie di danno enucleate dalla giurisprudenza
sono utilizzabili solo a fini descrittivi; ha poi ribadito che il danno
conseguenza può essere riconosciuto solo ove allegato e provato.
Ha quindi dedotto che nel caso di specie
non sarebbe stata fornita la prova del pregiudizio esistenziale arrecato alla
famiglia e al rapporto parentale a causa del provvedimento illegittimo: il ricorrente
in primo grado, infatti, non avrebbe provato alcuna concreta circostanza di
fatto dalla quale desumere i concreti cambiamenti che il comportamento illecito
avrebbe comportato sulla qualità della sua vita familiare; la campagna
mediatica sulla vicenda ed i commenti offensivi nei suoi confronti non
sarebbero collegati al provvedimento regionale, ma costituirebbero fattori
causativi di danno del tutto autonomi.
La Regione ribadisce, inoltre, la carenza
del requisito del nesso causale, riproponendo le questioni già analizzate e non
condivise (incertezza della situazione di fatto, vuoto normativo, incidenza
della condotta di altri soggetti istituzionali, rifiuto da parte di altre
strutture sanitarie anche di altre regioni di dare esecuzione al decreto della
Corte di Appello di Milano).
53. – Tali doglianze non possono trovare
accoglimento.
Occorre svolgere preventivamente alcune
premesse su tale figura di danno non patrimoniale e sull’onere probatorio posto
a carico del danneggiato.
La giurisprudenza della Corte di
Cassazione in tema di danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale
si riferisce normalmente i casi di perdita del congiunto a causa del fatto
illecito del terzo: il caso tipico è costituito dalla morte conseguente ad un
incidente stradale.
In merito all’onere probatorio ex art.
2697 c.c., può farsi ricorso alle presunzioni, come peraltro chiarito dalla
Corte di Cassazione nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008.
La giurisprudenza civile ha infatti
chiarito che la prova presuntiva – in tema di danno non patrimoniale – può
costituire anche l’unica fonte di prova per la formazione del convincimento del
giudice, non trattandosi di un mezzo di prova di rango inferiore agli altri
(Cass. SS.UU. 11/11/2008 n. 26972; Cass. SS.UU. 24/3/2006 n. 6572)
Ha però precisato che ciò, tuttavia, non
vale ad esonerare il danneggiato dall’onere di allegare tutti gli elementi che,
nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di
fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.
Ha nondimeno chiarito la giurisprudenza
che, nel dedurre dal fatto noto quello ignoto, il giudice di merito incontra il
solo limite del principio di probabilità (Cass., 12/6/2006 n. 13546): non
occorre cioè che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far
apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei
fatti accertati secondo un legame di necessità assoluta ed esclusiva, ma è
sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di
ragionevole probabilità, con riferimento alla connessione degli accadimenti la
cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza
basata sull’id quod plerumque accidit (cfr. Cass. 23/3/2005 n.
6220; Cass. 16/7/2004 n. 13169; Cass. 30/11/2005 n. 6081).
Ne consegue che incombe alla parte a cui
sfavore opera la presunzione dare la prova contraria idonea a vincerla, con
valutazione al riguardo spettante al giudice di merito (Cass. 12/6/2006 n.
13546).
In tema di danni da lesioni derivanti da
fatto illecito, è stato pertanto ritenuto che, ove il danneggiato abbia
allegato sia il fatto base della normale e pacifica convivenza del proprio
nucleo familiare, sia che le gravi lesioni subite dal proprio congiunto
all’esito del fatto - evento lesivo hanno comportato una sofferenza interiore
tale da determinare un’alterazione del proprio relazionarsi con il mondo
esterno, inducendolo a scelte di vita diverse, incombe al danneggiante dare la
prova contraria idonea a vincere la presunzione della sofferenza interiore,
così come dello “sconvolgimento esistenziale” riverberante anche in obiettivi e
radicali scelte di vita diverse che, dalla perdita o anche dalla lesione del
rapporto parentale, secondo l’id quod plerumque accidit per lo
stretto congiunto normalmente discendono (Cass. SS.UU. 11/11/2008 n. 26972;
Cass. SS.UU. 1276/2006 n. 13546).
Deve trattarsi di un danno serio, in
quanto viene esclusa la sua configurabilità quando dall’evento conseguono meri
disagi, disappunti, ansie, ovvero la perdita delle abitudini e dei riti propri
della quotidianità della vita (Cass. Sez. III 28/2/2017 n. 5013; Cass. Sez.
III, 20/8/2015 n. 166992).
54. - Svolte queste premesse, occorre
considerare che la situazione che ricorre nel caso di specie è del tutto peculiare
– in quanto la gravissima condizione di salute della persona e la successiva
morte -, non costituiscono certamente l’effetto della condotta della Regione
Lombardia: occorre dunque qualificare, in questo specifico e particolare caso,
come può atteggiarsi il danno da lesione del rapporto parentale.
Come già detto, il danno in questione è di
natura esistenziale e riguarda lo sconvolgimento delle abitudini di vita,
l’alterazione del modo di relazionarsi del soggetto sia all’interno del nucleo
familiare che all’esterno di esso, nell’ambito dei comuni rapporti della vita
di relazione (Cass. 12/6/2006 n. 13546). Tale danno non può considerarsi in
re ipsa ma richiede, secondo il principio della domanda e la regola
generale dell’art. 2697 c.c., l’allegazione precisa e circostanziata, dello
sconvolgimento di vita patito e delle sue specifiche e concrete
estrinsecazioni, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di
carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (cfr. Cass.
Sez. III 3/10/2013 n. 22585; 25/9/2012 n. 16255).
55. - Sotto l’aspetto causale, non vi è
dubbio che il provvedimento della Regione Lombardia di rifiuto di provvedere
alla adozione delle prestazioni richieste dalla persona interessata abbia
comportato cambiamenti nelle abitudini di vita del ricorrente in primo grado e
nel suo rapporto con la figlia: ha costretto, infatti, il padre-tutore ad
attivarsi per trovare una struttura esterna alla regione Lombardia ove
trasferire la figlia e a disporre poi il suo trasferimento in Friuli Venezia
Giulia; gli ha impedito di dare pronta attuazione alla sua volontà nel rispetto
della necessaria riservatezza che la delicatezza della situazione imponeva; ha
comportato il turbamento del suo stato d’animo, provocandogli il patema d’animo
a causa delle ulteriori difficoltà frappostesi, nonostante il lunghissimo iter
processuale ormai conclusosi, allontanando nel tempo e complicando
ulteriormente la realizzazione della volontà della figlia; ha leso il suo
diritto ad affrontare il momento più doloroso del suo distacco da lei in modo
intimo, riservato, in piena adesione con i principi da lei espressi e
rivendicati in sede giurisdizionale per far rispettare la sua volontà, senza
dover subire il giudizio negativo degli altri.
Si tratta di lesioni gravi, foriere dunque
di danno risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. e riconducibili – in base al
principio della causalità giuridica, per le ragioni già espresse – all’illecito
commesso dalla Regione Lombardia.
Quanto alla prova del danno, la parte danneggiata
può avvalersi della prova presuntiva, spettando a quella danneggiante di
superarla allegando idonei fatti contrari, che però – nel caso di specie – non
sono stati addotti.
56. - Ritiene però il Collegio che,
conformemente a quanto dedotto dalla Regione appellante, la quantificazione di
tale danno operata dal primo giudice non possa essere condivisa, in quanto il
danno subito dal Sig. -OMISSIS- – per quanto connotato da gravità e quindi
risarcibile - non può superare quello patito dalla figlia, poiché ciò che è
stato leso in via primaria è il suo diritto all’autodeterminazione, unitamente
al diritto all’effettività della tutela giurisdizionale.
Di fronte alla violazione di tali diritti
fondamentali, le lesioni arrecate al Sig. -OMISSIS- perdono di consistenza, si
appalesano di minore gravità, tanto da comportare la completa rideterminazione
degli importi liquidati a titolo di danno non patrimoniale da parte del primo
giudice, dovendo riconoscersi al Sig. -OMISSIS- la somma di € 20.000,00 a
titolo di danno iure proprio da lesione del rapporto
parentale, con l’aggiunta degli interessi e della rivalutazione monetaria negli
stessi termini stabiliti dal primo giudice.
57. - Deve essere ora esaminato il primo
motivo dell’appello incidentale, con il quale viene lamentata l’erroneità della
sentenza di primo grado, che ha ritenuto inammissibile l’azione risarcitoria
proposta in qualità di tutore della figlia in quanto carente della
legittimazione ad agire.
Il TAR ha ritenuto che: “il tutore
svolge il suo ufficio nell’interesse del soggetto incapace e quindi non può
agire in vece di quest’ultimo, laddove sia intervenuta la cessazione
dell’incarico”; “trattandosi di un compito assunto nell’interesse di un altro
soggetto, nessun danno potrebbe concretizzarsi direttamente nei confronti del
tutore, laddove sia posta in essere un’attività o un comportamento in danno
dell’incapace”.
58. - L’appellante incidentale rileva che
il TAR avrebbe male interpretato la sua azione, in quanto diretta ad ottenere
il ristoro del danno patito da lui stesso nello svolgimento delle funzioni di
tutore, tenuto conto di tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare per dare
esecuzione alla volontà della figlia a causa del provvedimento regionale e
della sua divulgazione. Ha rilevato, infatti, che la Regione oltre a rifiutarsi
di dare esecuzione al giudicato, ha diffuso mediaticamente il suo provvedimento
nel quale paventava possibili responsabilità da parte del personale sanitario
che avesse provveduto alla sospensione del trattamento sanitario in atto,
circostanza – quest’ultima – che avrebbe reso oltremodo difficoltoso reperire
una struttura sanitaria disponibile a prestare la propria attività
professionale per dare esecuzione al decreto della Corte di Appello di Milano.
59. - Ritiene il Collegio condivisibile
tale prospettazione: erroneamente il TAR ha interpretato la sua domanda come
diretta ad ottenere il ristoro del danno subito dall’incapace, laddove, invece,
egli intendeva conseguire il risarcimento del danno da lui stesso patito per il
compimento del suo ufficio di diritto privato, a causa del rifiuto di
collaborazione prestato dalla Regione.
Trattandosi di danno subito in proprio, e
non in rappresentanza della figlia, egli è sicuramente titolare della
legittimazione ad agire.
Nondimeno, però, occorre considerare che
il Sig. -OMISSIS- ha prestato la propria attività nell’interesse della figlia
nella doppia veste di tutore e di padre, e le difficoltà subite nello
svolgimento di tale attività a causa del provvedimento della Regione, sono state
da lui patite in questa doppia veste.
Egli però ha già ottenuto il risarcimento
del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente al provvedimento della
Regione e, dunque, in mancanza della prova rigorosa sull’esistenza di voci di
danno specifiche e diverse da quelle già ottenute iure proprio, la
sua domanda non può essere accolta, non potendo operarsi la duplicazione del
risarcimento per le medesime voci di danno.
La pretesa non può dunque trovare
accoglimento.
60. - Con il secondo motivo, l’appellante
incidentale censura il capo di sentenza che ha respinto la sua domanda diretta
ad ottenere il risarcimento del danno morale soggettivo.
Il TAR ha respinto la domanda rilevando
che:
- il ricorrente non aveva ancorato tale
voce di danno ad una neppure ipotetica illeceità penale direttamente collegata
all’adozione del provvedimento impugnato;
- l’illiceità è stata correlata
all’attività o ai comportamenti di alcuni organi regionali o di altri soggetti,
anche estranei all’apparato regionale, svolgenti attività di indirizzo
politico, che hanno svolto una campagna diffamatoria nei suoi confronti;
- mancava il nesso causale tra l’atto
regionale e tali danni, il cui ristoro avrebbe dovuto essere richiesto in un
autonomo giudizio civile proposto nei confronti di tali soggetti.
61. - Avverso tale statuizione ha dedotto
l’appellante incidentale che il primo giudice avrebbe trascurato di considerare
la gravissima lesione del suo onore, della sua reputazione, identità ed
immagine di padre e di tutore della signora -OMISSIS-, essendo stato indicato
come “complice di un omicidio”.
Lamenta quindi l’offesa prestata alla sua
dignità di uomo, a seguito di una condotta, astrattamente riconducibile al
reato di diffamazione o di calunnia.
Ha poi sottolineato come non possa essere
scissa la responsabilità della Regione da quella del suo Presidente, essendovi
una stretta correlazione e conseguenzialità tra le sue dichiarazioni ed i
provvedimenti emessi dall’Ente per il rifiuto di interruzione delle cure della
signora -OMISSIS-.
62. - La censura non può essere condivisa.
Il ricorrente in primo grado ha agito in
giudizio chiedendo il risarcimento del danno derivante dal provvedimento della
Direzione Generale Sanità della Regione Lombardia del 3 settembre 2008: deve
dunque sussistere tra il danno subito – del quale si rivendica il ristoro – un
rapporto di causalità immediata e diretta ai sensi degli artt. 1223 c.c. e 2056
c.c. con tale atto.
Il danno alla sua dignità, alla sua
reputazione, al suo onore, non sono riconducili a tale provvedimento che non
reca alcuna offesa alla sua persona.
Lo stesso appellante incidentale, infatti,
deduce che le offese derivano da dichiarazioni di alcuni esponenti politici,
titolari di cariche istituzionali – tra i quali, in particolare, l’allora Presidente
della Regione Lombardia.
E’ del tutto evidente che le dichiarazioni
personali rese da soggetti politici, non possono automaticamente imputarsi
all’Ente regionale, comportandone la relativa responsabilità a fini
risarcitori, in relazione alla vicenda contenziosa in esame, riguardante le
conseguenze del provvedimento illegittimo adottato dall’apparato amministrativo
regionale.
Né può validamente sostenersi che, essendo
il Presidente il legale rappresentante della Regione della sua condotta debba
rispondere sempre patrimonialmente l’ente che rappresenta: nella presente
vicenda l’allora presidente ha espresso opinioni personali, non imputabili
all’Ente da lui rappresentato.
Va aggiunto che non sono state allegate
sufficienti prove per poter sostenere che via sia stato un rapporto di diretta
correlazione tra le dichiarazioni rese dall’allora Presidente della Regione ed
il provvedimento illegittimo, come se l’atto fosse stato adottato in attuazione
di una sorta di “disegno” diretto a contrastare le statuizioni del giudicato,
per ragioni di carattere “etico”.
Il secondo motivo va dunque respinto.
63. - Con il terzo motivo di appello
incidentale lamenta l’appellante l’erroneità del quantum liquidato.
La censura deve essere respinta, perché la
somma complessivamente riconosciuta dal primo giudice si appalesa corretta,
anche se gli importi relativi alle singole voci di danno devono essere
rideterminati nei termini in precedenza precisati.
64. - In conclusione, per i suesposti
motivi, vanno respinti sia l’appello principale che quello incidentale, tenuto
conto che l’importo complessivo del risarcimento del danno non muta ed è pari
alla somma complessiva di € 132.965,78, oltre accessori, di cui € 12.965,78 a
titolo di danno patrimoniale (oltre agli interessi legali dal momento
dell’esborso e fino alla data di pubblicazione della sentenza) e di €
120.000,00 a titolo di danno non patrimoniale con l’aggiunta di interessi e
rivalutazione nei termini indicati dal TAR.
La sentenza di primo grado va quindi
confermata (provvedendosi anche alla rettifica dell’errore materiale contenuto
nella pagina 19 rigo 10, relativo all’importo del risarcimento del danno iure
hereditatis), con la diversa motivazione espressa dalla presente decisione in
relazione ai singoli punti individuati nei precedenti paragrafi.
65. - Le spese del presente giudizio
devono essere poste a carico della Regione Lombardia, alla luce del criterio
della complessiva soccombenza, e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello
principale e sull’appello incidentale, come in epigrafe proposti,
li respinge e per l’effetto, conferma con
diversa motivazione la sentenza impugnata, che ha accolto, parzialmente, il
ricorso di primo grado ed ha condannato la Regione Lombardia al risarcimento
del danno patrimoniale e non patrimoniale derivante dal provvedimento annullato
nei termini indicati in motivazione..
Pone le spese del giudizio di appello a
carico della Regione Lombardia, liquidandole in complessivi euro quattromila.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di
cui all’art.22, comma 8 D.lg.s. 196/2003, manda alla Segreteria di procedere,
in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento
delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute
delle parti o di persone comunque ivi citate."