IL GIUDICATO DELLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE DEL LAVORATORE ACCUSATO DI FURTO NON IMPLICA L'AUTOMATICA PRECLUSIONE ALLA COGNIZIONE DEL LICENZIAMENTO.

Giovedì 8 gennaio 2015

Il giudicato della sentenza di assoluzione del lavoratore accusato di furto non implica l'automatica preclusione alla cognizione del licenziamento per giusta causa.


Con la sentenza n. 13, depositata il 5 gennaio 2015, la sezione lavoro della Corte Suprema di Cassazione (Pres. Roselli - Est. Tria) ha statuito il principio secondo cui "la contestazione dell'addebito disciplinare a carico del lavoratore subordinato non è assimilabile alla formulazione dell'accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa. Pertanto, la suddetta contestazione va valutata in modo autonomo rispetto ad eventuali imputazioni in sede penale a carico del lavoratore. Ne consegue che se, in sede penale, sia stata emessa in favore del lavoratore sentenza irrevocabile di assoluzione dibattimentale, con qualsiasi formula adottata, ai sensi dell'articolo 654 cod. proc. pen. (in tema di effetti in sede civile di tale tipo di sentenza), il discrimine tra efficacia vincolante dell'accertamento dei fatti materiali in sede penale e libera valutazione degli stessi in sede civile è costituito dall'apprezzamento della rilevanza in detta sede degli stessi fatti, essendo ipotizzabile che essi, pur rivelatisi non decisivi per la configurazione del reato contestato, conservino rilievo ai fini del rapporto dedotto innanzi al giudice civile, con la conseguenza che dall'assoluzione dalla penale responsabilità non discende in tal caso l'automatica conseguenza della preclusione alla cognizione della domanda da parte di detto giudice".

La Corte ha precisato che, pur di fronte alla tenuità del fatto contestato e del danno patrimoniale effettivamente cagionato al datore di lavoro (nella specie, il dipendente, con funzioni di supervisore e capoturno, è stato trovato in possesso di tre piccole schede di memoria), ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso per giusta causa, viene in considerazione non già l'assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti e quindi alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda, ricavabile anche dalla posizione lavorativa ricoperta. 

Vai alla sentenza della Corte di Cassazione 5 gennaio 2015 n. 13